Doveva essere un passo fondamentale verso un futuro senza inquinamento da plastica. Eppure, dopo dieci giorni di trattative a Ginevra, il vertice dell’ONU, che mirava a redigere un trattato vincolante per regolamentare la plastica a livello globale, si è concluso senza alcun risultato. Non c’è stato alcun accordo sui punti cruciali e nessuna intesa tra i Paesi: il documento che avrebbe dovuto costituire la base del trattato è stato bloccato.
E perché? A causa delle profonde divisioni tra due schieramenti opposti. Da una parte, oltre 100 Paesi – tra cui l’Unione Europea, il Regno Unito, il Canada, il Cile, la Norvegia e il Ruanda – uniti nella cosiddetta “High Ambition Coalition”, che richiedono un trattato ambizioso in grado di affrontare l’intero ciclo di vita della plastica: dalla progettazione alla produzione, fino allo smaltimento. Dall’altra parte, potenze come Stati Uniti, Arabia Saudita, Cina, Russia, Iran, India e molti Paesi del Golfo, che vogliono limitare l’accordo solo alla gestione dei rifiuti e alla promozione del riciclo, evitando di imporre restrizioni sulla produzione.
Le divergenze si sono rivelate insormontabili soprattutto su un punto: stabilire limiti vincolanti alla produzione globale di plastica vergine. I Paesi esportatori di petrolio e le nazioni con forti interessi nell’industria petrolchimica si sono uniti per bloccare qualsiasi proposta che mettesse in discussione la filiera produttiva. Questo, nonostante l’allerta lanciata da vari organismi scientifici internazionali: entro il 2060, la produzione globale di plastica potrebbe triplicare, e oltre la metà di questi materiali finirebbe nell’ambiente senza mai essere raccolta o riciclata.
Secondo l’OCSE, ogni anno si producono oltre 460 milioni di tonnellate di plastica, ma meno del 10% di essa viene effettivamente riciclato. Il resto finisce nelle discariche, negli oceani, viene bruciato negli inceneritori o disperso nell’ambiente. Se non si interviene alla fonte, regolando la produzione, gli sforzi successivi rischiano di essere inutili.
Il vertice di Ginevra ha visto una massiccia presenza delle lobby industriali: secondo diverse organizzazioni della società civile, come Greenpeace e il Center for International Environmental Law (CIEL), erano presenti più di 190 rappresentanti dell’industria petrolchimica, tra cui giganti come ExxonMobil, Dow Chemical e TotalEnergies, un numero che supera quello dei delegati dell’UE. Le ONG sostengono che la loro influenza ha avuto un impatto significativo sull’esito del negoziato.
La frustrazione è palpabile tra attivisti e osservatori internazionali. L’organizzazione Break Free From Plastic ha denunciato il “sabotaggio sistematico da parte degli interessi industriali” e ha messo in evidenza come questo fallimento possa compromettere gli obiettivi dell’Agenda 2030 e gli impegni presi alla COP 28. Anche il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), che ha promosso il processo di negoziazione, ha riconosciuto che il tempo stringe: il trattato dovrebbe essere finalizzato entro la fine del 2024, ma con questi ritardi diventa sempre più difficile.
Nonostante tutto, ci sono ancora alcune speranze. La presidenza del comitato intergovernativo (INC) ha proposto di lavorare su un testo di compromesso entro novembre, in occasione del quinto e ultimo round negoziale. Tuttavia, senza decisioni forti a Ginevra, il testo di base sarà puramente tecnico e privo di vincoli vincolanti sulla produzione, lasciando alle future riunioni il compito di decidere se introdurre limiti reali.
Nel frattempo, l’inquinamento continua a crescere. Ogni minuto, oltre 30 tonnellate di plastica vengono scaricate negli oceani, molte delle quali si trasformano in microplastiche invisibili che entrano nella nostra catena alimentare. Le coste, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, sono sommerse da rifiuti che non vengono gestiti, mentre la pressione sui sistemi sanitari aumenta a causa degli effetti della plastica bruciata o ingerita. In Africa e in Asia, diversi Stati segnalano di essere diventati le discariche del mondo occidentale, ricevendo ogni anno centinaia di migliaia di tonnellate di plastica esportata dai Paesi industrializzati.
Questo fallimento, quindi, non è solo una questione diplomatica, ma anche etica e politica. La plastica non è solo un rifiuto: è un simbolo delle disuguaglianze globali, della distanza tra il Nord e il Sud del mondo, e della tensione tra profitto e diritti ambientali. E il fatto che non si riesca nemmeno a trovare un accordo globale su questo tema, fa capire quanto sia ancora lunga la strada verso una vera giustizia climatica.