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Tessuti in bioplastica: sono veramente biodegradabili o ulteriore greenwashing?

Un nuovo studio, durato ben 428 giorni e coordinato dalla Dott.ssa Sarah-Jeanne Royer, prende in esame le bioplastiche ma no, non le solite bottiglie o posate, in questo caso la ricerca si è svolta riguardo a diversi tipi di tessuti. Tutto è nato per cercare di capire se ciò che veniva e viene venduto come compostabile o biodegradabile lo è veramente anche in natura o solo in particolari contesti industriali. Ma cosa centra la bioplastica con i tessuti? Ancora non sembra essere arrivato il collegamento. Occorre però sapere che, secondo stime odierne, le quantità in circolazione di questi ultimi composti da misto-plastica o plastica è di circa il 62%, con un numero considerevole in acido polilattico (il cosiddetto PLA) che viene normalmente diffuso e pubblicizzato come “biodegradabile”.

Lo studio ha preso in analisi la capacità di biodegradarsi in acque oceaniche di due categorie di tessuti, quelli naturali e quelli completamente sintetici o misti. È stato pubblicato su PLOS ONE e si è svolto prendendo in considerazione 10 tipologie diverse di tessuti, tra i quali si va dal cotone alla bioplastica o dalla viscosa ai tessuti misti. I campioni sono stati posizionati a dieci metri di profondità sotto il livello del mare e ogni 7 giorni esaminati, il tutto per 428 giorni. I risultati sono stati stupefacenti ed anche illuminanti poiché i tempi nei quali si sono dissolti in acqua le due macro tipologie è nettamente diverso: i tessuti naturali in circa un mese mentre i tessuti sintetici dopo più di un anno non si erano ancora dissolti.

Le fibre naturali si sono disintegrate più e più volte circa ogni 30/35 giorni, tutti i campioni a base di petrolio sono rimasti praticamente intatti, compresi quelli venduti come biodegradabili. È stato poi sottolineato dal team di ricerca che queste bioplastiche rappresentano una fonte di inquinamento e andrebbe monitorato e standardizzato con una serie di test, il loro comportamento dopo essersi disperi nell’ambiente. Sembra chiaro che di bio o sostenibile questi tessuti abbiano ben poco e che si sfrutti il greenwashing ed i nomi provocanti per fare leva sulle coscienze delle persone.

Per cercare di combattere il problema possiamo, nel nostro piccolo, cercare di evitare l’abuso consumistico di vestiti e tessuti, soprattutto appartenenti al fast fashion, preferendo magari meno acquisti ma più duraturi e di qualità maggiore ma soprattutto, naturali, perché l’inquinamento portato dai tessuti sintetici avviene anche nel nostro quotidiano, precisamente nel momento dei lavaggi in lavatrice, duranti i quali vengono rilasciate e disperse molte microfibre plastiche in acqua.


A cura di Andrea Tornavacca, ESPER

Coerentemente con il nuovo Piano regionale in Valle d’Aosta le tariffe più contenute verranno applicate solo ai SubAmbiti che differenziano meglio

Coerentemente alle misure previste nell’aggiornamento del Piano regionale per la gestione dei Rifiuti della Regione autonoma Valle d’Aosta (redatto da ESPER insieme ad Ambiente Italia, Scuola Agraria del Parco di Monza e Zimatec) è stata recentemente approvata dalla Giunta una diversa articolazione delle tariffe di trattamento in riferimento alla qualità dei flussi differenziati nei vari sub-ambiti.

A partire dal 2023, i cinque Sub-ambiti della Valle d’Aosta saranno quindi sottoposti a controlli più restrittivi riguardo non solo alla quantità ma anche e soprattutto alla qualità dei rifiuti raccolti in modo separato. Secondo il nuovo PNGR una corretta differenziazione dei rifiuti urbani risulta essenziale per poter contenere i costi del servizio di igiene urbana. Il criterio premiante non è quindi più esclusivamente legato all’elevata percentuale di raccolta differenziata e le tariffe più favorevoli saranno riconosciute solo ai sub-ambiti caratterizzati dalla migliore qualità dei rifiuti differenziati.

A fronte di una serie di controlli nell’impianto di trattamento e recupero di Brissogne sono state rilevate “frazioni estranee” in numero molto maggiore rispetto a quello atteso soprattutto per quanto riguarda la raccolta multimateriale, che per la Valle d’Aosta prevede plastica, metalli e alluminio. Queste frazioni estranee sono state finora presenti in percentuali che variano dal 17% al 35%. La conseguenza è una netta riduzione dei ricavi ottenuti dalla valorizzazione e riciclo di tale flusso differenziato multimateriale.

In accordo con Enval, società che gestisce l’impianto di Brissogne, sono state quindi introdotte le nuove tariffe e sanzioni che, a fronte di specifiche analisi merceologiche sulle frazioni di rifiuto differenziato, verranno eventualmente applicate ai Sub-ambiti caratterizzati da percentuali troppo elevate di “frazioni estranee”. Per i sub-ambiti caratterizzati da una migliore qualità delle raccolte differenziate, le tariffe applicate saranno più vantaggiose e quindi anche le bollette per i propri utenti saranno minori rispetto a quelle degli altri sub-Ambiti.

Un’ulteriore novità è l’esclusione delle plastiche dure (giocattoli, bacinelle, secchi…) dalla raccolta del multimateriale. Questi rifiuti dovranno essere portati nelle isole ecologiche o nei centri di conferimento.

Tutte queste iniziative mirano a garantire il raggiungimento degli obiettivi assunti dalla Regione cioè un tasso netto di effettivo riciclo per i rifiuti urbani del 65% e un tasso di raccolta differenziata almeno pari all’80% entro il 2026.


A cura di Andrea Tornavacca, ESPER

Plastiche monouso: il Regno Unito segue l’esempio dell’UE

Facendo seguito a una serie di azioni già intraprese in passato, da ottobre 2023 nel Regno Unito saranno vietate ulteriori specifiche plastiche monouso inquinanti.

Fuori dall’UE ma con un occhio sempre attento alle scelte di Bruxelles: anche il Regno Unito si allinea ai progetti green, con una decisione importante che potrebbe avere un impatto significativo per l’ambiente, ma anche per la produzione nazionale e l’import.

Il 14 gennaio 2023, infatti, la Segretaria all’Ambiente, Thérèse Coffey, ha annunciato il divieto di utilizzo per una serie di prodotti in plastica.

Così, a partire dal mese di ottobre 2023, le plastiche monouso inquinanti saranno bannate.

Dunque, esattamente un anno dopo (14 gennaio 2022) l’entrata in vigore della Direttiva europea SUP (Single Use Plastic), con la quale l’Unione metteva al bando prodotti monouso per ridurre il consumo di plastica, limitandone la dispersione nell’ambiente e negli oceani – anche il Regno Unito segue l’esempio green friendly.

Plastiche monouso: i dati in UK

Londra, dunque, pone il veto su piatti, vassoi, ciotole, posate, bastoncini per palloncini in plastica monousocontenitori per alimenti in polistirolo e alcuni tipi di bicchieri.

Alle aziende sono stati concessi poco più di 8 mesi per adattarsi al nuovo regime produttivo, anche se la notizia era già nell’aria.

Dal prossimo ottobre non sarà più possibile acquistare questi prodotti, che non verranno neppure utilizzati nell’industria dell’ospitalità o in quella della ristorazione.

La misura è stata accolta con il favore della maggioranza dei partecipanti alla consultazione pubblica, indetta appositamente per la questione: le motivazioni che sottendono tale scelta sono note.

E, se i dati europei risultavano preoccupanti, quelli britannici sembrano essere ancora peggiori.

Le stime parlano di un utilizzo, per posate monouso, pari 2,7 miliardi di unità annue, e di 721 milioni di piatti della stessa tipologia. I numeri potrebbero esser accettabili se non fosse che solo il 20% di questi passa alla fase del riciclo.

Tra l’altro, la plastica impiega centinaia di anni per essere smaltita, creando ingenti danni alle risorse acquifere – che arrivano poi all’uomo – senza considerare che la produzione della stessa rappresenta una delle principali fonti di emissioni di gas serra.

Le precedenti azioni per la tutela dell’ambiente

In passato il Paese oltremanica aveva già attuato una serie di azioni a tutela ambientale, regolamentando le produzioni e l’utilizzo delle plastiche inquinanti.

Nel 2018 erano state vietate le microsfere di plastica, nei prodotti per la cura personale che necessitavano di risciacquo, per evitarne appunto una dispersione nell’ambiente.

Da ottobre 2020, poi, il Regno Unito ha provveduto a restringere l’utilizzo di plastiche monouso, quali cannucce, bacchette e cotton fioc, che contribuivano al 5,7% dei rifiuti marini.

In particolare, i bastoncini di cotone risultavano tra i dieci prodotti maggiormente presenti tra i rifiuti delle spiagge britanniche.

Le posate di plastica, invece, si collocavano tra i 15 articoli più sporchi, secondo stime del 2020.

Dal 1° aprile 2022, invece, è in vigore la Plastic Packaging Tax (PPT), un’imposizione di 200 sterline per ogni tonnellata metrica di imballaggi in plastica, fabbricati o importati nel Regno Unito, qualora questi non contengano almeno il 30% di plastica riciclata.

La PPT colpisce circa 20mila imprese britanniche e, secondo le stime, nel primo biennio di imposizione dovrebbe far aumentare, di circa 40 punti, l’utilizzo di plastica riciclata rispetto ai livelli iniziali del 2022, con un risparmio di CO2 di quasi 200mila tonnellate, grazie a un minor uso di plastica vergine.

Un’altra restrizione è stata applicata alle buste monouso, con una tariffa che inizialmente era di 5 pence, salita a 10 nel maggio del 2021.

Questa scelta, con un addebito che evidentemente è pesato alle famiglie, seppur apparentemente irrisorio, ha tagliato le vendite di buste di circa 97 punti, nei principali supermercati.

La plastica, nello scenario futuro del Regno Unito

Il divieto delle plastiche monouso, da ottobre 2023, dovrebbe quindi avere un impatto significativo sulla riduzione dei rifiuti di plastica britannici.

La restrizione, tuttavia, non colpirà il packaging utilizzato per i prodotti alimentari (piatti, vassoi, ciotole) venduti nei supermercati e in ambiti similari.

In questo caso, infatti, la tutela ecologica trasla su un piano diverso, con la scelta di un regime che preveda la responsabilità estesa del produttore. A questi verrà richiesto di utilizzare imballaggi facilmente riciclabili, per raggiungere gli obiettivi ambientali.

Alcune importanti catene, quali Co-opFood MD e WRAP, infatti, si stanno già allineando, utilizzando ad esempio forchette in legno per il cibo da asporto, e imballaggi per alimenti e bevande riciclabili al 100%, come il soft plastic packaging.

Il Regno Unito, però, non sembra intenzionato a fermarsi. Uno dei prossimi impegni in programma riguarda l’etichettatura obbligatoria sugli imballaggi, utile strumento per i consumatori nello smaltimento dei rifiuti.

Si tratta di un procedimento importante, ai fini ambientali, come dimostrato anche in ambito europeo.

Ricordiamo, infatti, che l’UE ha emanato la Direttiva 2018/851, recepita in Italia con il Decreto Legislativo 116/2020, in vigore nel Bel Paese dal 1° gennaio 2023, dopo un iter burrascoso: secondo le disposizioni dell’atto normativo, i produttori non potranno più immettere sul mercato imballaggi privi di etichetta, mentre quelli “vecchi” potranno essere commercializzati fino a esaurimento delle scorte.

Nel fascicolo n. 2 – marzo 2023 della rivista Plastix è presente un approfondimento sull’obbligo di etichettatura ambientale per gli imballaggi, in Italia.

Fonte: Plastix

Aumentano gli articoli di greenwashing a favore dell’immagine della plastica monouso: semplici coincidenze oppure una strategia orchestrata da parte della lobby dei produttori?

Negli ultimi anni sono cresciute a dismisura le iniziative di greenwashing e le campagne volte dimostrare che i consumatori non debbono preoccuparsi di cambiare abitudini di consumo. È veramente così o sono le inchieste sulle conseguenze indotte dall’eccessivo consumo e scarso tasso di riciclo delle plastiche monouso ad essere troppo allarmistiche ?

Quale è il target e/o lo scopo di questi articoli, presentati in modo da far credere che siano basati su fonti autorevoli? Semplice, in primis servono a far sentire meno in colpa tutta quella parte (sempre più crescente) di persone che cominciano ad interessarsi all’ambiente e non comprare più prodotti che reputano eccessivamente inquinanti. Inoltre tali articoli servono a far pensare che grazie al progresso tecnologico la nostra società sia ormai in grado di porre rimedio agli enormi problemi legati alla sovra produzione di plastica monouso di cui sta aumentando il consumo. Anche probabilmente grazie a tale iniziative di disinformazione le potentissime lobby della plastica monouso e degli imballaggi plastici che è finora riuscita, ad esempio, a posticipare l’entrata in vigore della “plastic tax”.

Questa scorrettissima tecnica di marketing è conosciuta come “greenwashing”, che letteralmente si traduce con “lavare di verde” e cerca di sviare l’attenzione dell’utente finale da un reale problema proiettando la sua attenzione verso iniziative che ripuliscono, almeno in parte, l’immagine di un determinato settore.

Un bellissimo esempio, realizzato in chiave ironica, è stato riportato sul sito di GreenMe. A seguito della notizia riguardante la dichiarazione da parte dell’Italia di avviare a riciclo il 72% dei rifiuti prodotti, ma di utilizzare solo il 21,6% di materiali riciclati rispetto a quelli consumati, la community digitale di vignette umoristiche, Legolize, ha postato una serie di immagini realizzate con personaggi di LEGO, nelle quali emerge come il precedente problema possa essere risolto “facendo un post su LinkedIN in cui si dice che la propria azienda ha piantato 100 mila alberi in Brasile“, facendoci ragionare su come si usino temi di interesse comune, come la deforestazione ed il piantare nuovi alberi, per togliere l’attenzione da ciò che non viene fatto davvero per l’ambiente.

Alcune iniziative, seppur lodevoli, fanno pensare di combattere un problema e di “vincere” contro la plastica, quando in realtà non siamo neanche vicini a fermare il problema. Nell’articolo riguardante la non profit olandese Ocean Cleanup del Corriere della Sera, si scrive di ottimi risultati raggiunti nel processo di pulizia e smantellamento dell’isola di plastica galleggiante che si trova nell’Oceano Pacifico, addirittura si parla di più di 200 tonnellate di rifiuti recuperati in mare dalla creazione dell’organizzazione, numeri impressionanti e che hanno richiesto un sicuro impegno, ma che non sono nulla paragonati alle 150 milioni di tonnellate di plastica già presenti negli oceani ed alle circa 10 milioni di tonnellate che vengono riversate ogni anno nei mari e si vanno ad aggiungere al precedente valore.

Sempre nello stesso articolo si parla anche dei danni che provocano la plastica e le particelle che vengono degradate dai raggi ultravioletti del sole, creando così la nanoplastica. Questo processo fa degradare ogni anno circa il 2% della plastica che galleggia disperdendola ovunque e sopratutto nello stomaco dei pesci che mangiamo e che contribuiscono ad immettere plastica nel nostro organismo.

Alcuni articoli, come quello de Il Mattino, sembrano addirittura volerci convincere di come questo insieme di plastica, definito “Plastisfera”, rappresenti una nuova opportunità di far riprodurre e colonizzare gli oceani alle specie costiere, come cozze, anemoni di mare e ostriche.

Altri articoli come quello dal titolo “Come riciclare plastica mista con un processo di upcycling” presentano come un processo innovativo una tecnica già in uso da vari decenni (aggiungendo il 5-10% di poliolefine alle plastiche miste triturate) con cui però sono stati finora prodotti materiali che hanno trovato come pressoché unico sbocco commerciale la produzione di autobloccanti o similari di difficile commercializzazione.

Il problema di fondo resta però sempre uno, è inutile ripulire gli oceani e cercare sempre nuovi modi di riciclare la plastica se non si inizia a produrne di meno già in partenza, magari rivoluzionando il modo di concepire i prodotti monouso o gli imballaggi plastici. Secondo i risultati monitorati ed analizzati dall’Unione Europea la soluzione più efficace per aumentare il riciclo, diminuire la produzione e la domanda di imballaggi, è il sistema di deposito cauzionale, anche denominato DRS (acronimo di Deposit Return System), metodo che permette, a fronte di una cauzione che si paga in più su un prodotto, di poter riportare i contenitori, come bottiglie e flaconi, in appositi sistemi di selezione che restituiscono la quota pagata in precedenza.

Ma si dovrebbe operare molto di più per diminuire il consumo e la produzione di plastica monouso, poiché solo in questo modo si può veramente diminuire l’inquinamento che deriva dal suo uso intensivo e sregolato. Chi cerca di convincerci che quanto non è stato fatto in passato (finora nel mondo vengono prodotti materiali plastici con il solo 2% di contenuto riciclato come denunciato in questo articolo del National Geographic che ci ricorda anche che “Riciclabile non significa riciclato”) sarà miracolosamente fatto a breve e quindi non ci dobbiamo preoccupare troppo del futuro delle prossime generazioni è, nelle migliore delle ipotesi, solo un ingenuo poco informato.


A cura di Andrea Tornavacca, ESPER

Imballaggi in plastica: un incubo per l’industria del riciclo

L’enorme varietà e abbondanza degli imballaggi in plastica — comprese le scatole blister, particolarmente difficili da aprire — sono un bel grattacapo per l’industria del riciclo.

Qualche tempo fa, le forbici venivano confezionate tra due spessi strati di plastica resistente. Sembravano imprigionate per sempre. Servivano una certa ingegnosità e un certo sforzo, per liberare l’articolo in offerta dalla sua prigione trasparente. Ma c’era anche il rischio di farsi male. Migliaia di persone si feriscono ogni anno procurandosi tagli e lesioni tentando di aprire confezioni di plastica e altri imballaggi simili.

Le scatole blister non solo sono state decretate l’imballaggio dal design peggiore di sempre, ma hanno anche dato origine all’espressione “furia da disimballaggio”, ben rappresentata dal comico Larry David nel tentativo di aprirne una. Ciononostante, i prodotti così confezionati riempiono gli scaffali di negozi e supermercati.

Gli imballaggi dei prodotti generano più rifiuti di plastica di qualsiasi altra industria. In Europa rappresentano il 59% di tutti i rifiuti di plastica, in termini di peso. Negli Stati Uniti tale quota probabilmente è più vicina al 65%, secondo gli esperti. Il mercato globale degli imballaggi è un’industria da 640 miliardi all’anno, e sta crescendo del 5,6% annuo. La plastica ne rappresenta un terzo, rendendo così il packaging il più grande settore di mercato per la plastica negli USA.

Le scatole blister, come la maggior parte delle confezioni, sono in plastica monouso e, anche se tecnicamente riciclabili, in realtà solo minime quantità vengono riconvertite negli USA. Questa tendenza dovrà cambiare rapidamente, se i produttori e l’industria della plastica vogliono tener fede agli impegni presi per il riciclaggio e il riutilizzo della plastica, e aumentare sostanzialmente il loro uso di plastica riciclata nel packaging.

L’evoluzione delle scatole blister

L’invenzione delle scatole blister, o bivalve, è attribuita a Thomas Jake Lunsford, anche se lui le chiamò “Sistema di packaging ed esposizione separabile” quando ne registrò il brevetto il 15 settembre 1976. Le scatole “bivalve”, come il loro nome suggerisce, sono formate da due “gusci” di plastica identici che racchiudono il prodotto uniti in un unico punto che funge da “cardine”. Quando le due parti vengono premute l’una contro l’altra, lo scatto dell’incastro forma la chiusura, che può essere più o meno difficile da aprire.

Lunsford non aveva previsto l’uso della sigillatura a caldo sui bordi per rendere le scatole blister impossibili da aprire senza l’uso di attrezzi. Le forbici, anche quelle non intrappolate negli imballaggi, non funzionano bene su queste plastiche “scivolose”. Inoltre, così come i taglierini, comportano un certo rischio di ferirsi le mani. Le cesoie funzionano meglio, ma c’è uno strumento ideato appositamente per aprire questo tipo di confezioni.

Per aiutare la madre di 90 anni ad aprire gli imballaggi in plastica, tanti anni fa il dentista in pensione Steve Fisher inventò lo Zip-it Opener, un “apriscatole” a batteria per confezioni in plastica. È uno strumento molto popolare tra gli anziani, le persone affette da artrite o comunque con ridotta forza nelle mani, disse Fisher in un’intervista.

Le scatole blister rimangono una tipologia di packaging molto usata nella vendita al dettaglio perché il prodotto è visibile dai due lati, può essere appeso o semplicemente appoggiato sugli scaffali, ed è difficile da taccheggiare perché la confezione è più grande del prodotto al suo interno. È molto più leggera del cartone e di qualsiasi altro materiale alternativo quindi consente di risparmiare energia nel trasporto, è più economica da produrre e più durevole. Nell’industria alimentare viene utilizzato oltre il 60% di tutto il packaging prodotto sotto forma di scatole blister.

“La varietà di tipologie di scatole bivalve e blister è enorme”, afferma Sara Greasley, che ha un noto blog sul packaging e lavora nel settore. Le confezioni in blister generalmente sono formate da un involucro di plastica montato su un supporto in cartone. Le pile ad esempio, vengono ancora vendute così. Ma i due termini — scatole bivalve e confezioni blister — spesso vengono usati in modo intercambiabile, e questo può creare confusione, afferma Greasley.

Il tipo di packaging usato è spesso determinato dai rivenditori, soprattutto dalle grandi catene che hanno specifici requisiti per il confezionamento delle merci, afferma. Il packaging deve superare specifici test di resistenza, ad esempio allo scuotimento, alla rottura e alla caduta, che garantiscono che il prodotto non venga danneggiato. 

Riciclabile non significa riciclato

L’enorme varietà e abbondanza degli imballaggi in plastica si rivela essere un bel grattacapo per l’industria del riciclo. “È una grande sfida” riconosce Steve Alexander, Presidente dell’Association of Plastic Recyclers. “Le scatole blister normalmente sono fatte di PET, quindi sono altamente riciclabili”, afferma Alexander.

C’è una forte domanda di PET (polietilene tereftalato) riciclato, contenuto nelle scatole blister nuove, in particolare in quelle usate nell’industria alimentare. Tuttavia, questi imballaggi non vengono riciclati perché non vengono raccolti, e se vengono raccolti la maggior parte degli impianti di recupero dei materiali non sono in grado di separarli dagli altri materiali. E quando questo è possibile, le etichette o i residui di cibo possono essere problematici da rimuovere, così come il supporto in cartone delle confezioni blister, afferma.

I consumatori stanno scegliendo sempre di più i prodotti sostenibili — con relativo packaging — che si vendono al doppio della velocità rispetto agli altri prodotti, come ha mostrato uno studio di Nielsen del 2018.

Nell’ultimo decennio le iniziative per un packaging sostenibile di Amazon hanno ridotto i rifiuti prodotti dal packaging di Amazon del 16%; l’obiettivo è arrivare a una riduzione complessiva del 25%, afferma. A questo scopo l’azienda ha sviluppato una busta di carta imbottita interamente riciclabile per sostituire le onnipresenti buste gialle imbottite con plastica pluriball.

Ridurre e riutilizzare su larga scala

Giganti multinazionali come PepsiCoCoca Cola e Walmart, e altri 400 marchi, hanno fissato ambiziosi propositi di riciclaggio in base al New Plastics Economy Global Commitment, avviato nel 2018 dalla Ellen MacArthur Foundation. L’obiettivo è un’economia circolare per la plastica che prevede che la stessa non diventi mai un rifiuto, e il packaging è il primo target.

A questo fine anche le aziende hanno accettato di aumentare la quantità di plastica riciclata usata nel packaging di un 25% di media entro il 2025, rispetto all’attuale media globale del solo 2%. Anche questa è una grande sfida, ha detto Alexander. “Per raggiungere questi obiettivi abbiamo bisogno di una quantità di PET 3,5 volte superiore a quella che viene attualmente raccolta e differenziata”, continua.

Anche le bottiglie di plastica sono in PET e sono la fonte principale per le aziende di riciclo. Nei prossimi dieci anni sarà necessario un investimento di oltre 2 miliardi di € solo in impianti di trasformazione, per raggiungere gli obiettivi delle aziende, secondo un report del gruppo di ricerca e analisi Wood Mackenzie. E questo non include gli ulteriori investimenti per le strutture di raccolta e di recupero dei materiali.

Quindi ora le navi cariche di rifiuti di plastica americani vengono spedite in paesi come Thailandia, India e Indonesia, dove la maggior parte dei rifiuti viene gestita in modo inappropriato. E nel 2018 la plastica bruciata negli USA è stata sei volte di più di quella riciclata. Bruciando, la plastica produce CO2 e può rilasciare tossine. Solo il 50% delle famiglie negli USA ha la raccolta porta a porta, quindi come fanno le aziende di riciclaggio ad avere accesso al materiale? – chiede Alexander. 

Meno del cinque per cento della plastica viene riciclato, negli USA. Il resto va in discarica, viene bruciato o esportato. Nel 2017, 907 tonnellate di rifiuti di plastica sono state mandate in Cina e ad Hong Kong, e lo stesso anno la Cina disse che non ne avrebbe accettati altri. “È necessario affrontare un dibattito serio in questo Paese sulla soluzione di questo problema”, afferma Alexander.

A parte il riciclaggio, il riutilizzo delle scatole blister è la caratteristica che Lunsford, il loro inventore, affermava fosse il vantaggio rispetto al packaging plastico esistente. Ma lì nel negozio, avevo una scatola blister termosigillata di plastica spessa in mano, con un paio di forbici blindate lì dentro. Erano forbici forti, in grado di aprire qualsiasi tipo di confezione. Ma, come Larry David, avrei dovuto distruggere l’imballaggio per tirarle fuori, rendendo la scatola in plastica non più riutilizzabile. Quelle forbici valevano lo sforzo e il rischio necessari per liberarle dalla loro prigione di plastica? Le ho rimesse sullo scaffale.

Fonte: National Geographic Italia

115 milioni dal MASE a 75 progetti per riciclare la plastica

Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica finanzierà 75 nuovi progetti per la creazione di impianti di riciclo dei rifiuti plastici, compresi quelli recuperati nelle acque italiane, con finanziamenti per 115 milioni di euro.

Il dipartimento di sviluppo sostenibile del Ministero ha approvato il decreto di concessione dei contributi a progetti ritenuti particolarmente meritevoli nell’ambito dell’Economia Circolare per il riciclo della plastica, linea di intervento specifica prevista dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. I soggetti beneficiari del finanziamento, contenuti nella lista pubblicata sul sito del Ministero, potranno così realizzare nuovi impianti di riciclo e plastic hubs, che permetteranno anche il recupero dei rifiuti marini, presenti ormai in gran parte delle acque italiane e non solo.

Il Ministro Gilberto Pichetto ha sottolineato che l’investimento del PNRR offre la possibilità di far crescere nel Paese una filiera dell’innovazione per la gestione dei rifiuti plastici. Il Ministro ha ricordato che anche durante il G7 in Giappone ci si è assunti un chiaro impegno per fermare i nuovi rifiuti plastici entro il 2040 e che l’Italia vuole essere un riferimento virtuoso per l’affermazione dell’economia circolare anche su livello internazionale.

Il provvedimento, già trasmesso alla Corte dei Conti per essere registrato, permetterà anche di individuare nuovi beneficiari dei fondi che non si sono riusciti ad inserire nel decreto precedente.


A cura di Andrea Tornavacca, ESPER

Nel mondo ci sono più rifiuti di plastica monouso che mai e i giganti del fossile non affrontano il problema

Lo dice il rapporto Plastic Waste Makers Index (PWMI) 2023 della Minderoo Foundation, secondo cui l’inquinamento da plastica monouso nel mondo sta sensibilmente aumentando. Dal 2019 al 2021 la produzione è aumentata di altri 6 milioni di tonnellate e questo influisce su inquinamento e sulle emissioni di gas serra: “I giganti dei combustibili fossili non stanno affrontando il problema della plastica, è il contrario, ne stanno producendo ancora di più e questo minaccia la nostra gente e il pianeta”

Secondo il rapporto Plastic Waste Makers Index (PWMI) 2023 della Minderoo Foundation l’inquinamento da plastica monouso nel mondo sta sensibilmente aumentando, contribuendo al peggioramento delle emissioni di gas serra.

I principali risultati del rapporto rivelano che:

  • Nonostante la crescente consapevolezza dei consumatori, l’attenzione delle aziende e la regolamentazione, ci sono più rifiuti di plastica monouso che mai – ulteriori 6 milioni di tonnellate (equivalenti a quasi 1 kg a persona sul pianeta) generati nel 2021 rispetto al 2019 – ancora quasi interamente costituiti da combustibili fossili.
  • La plastica monouso non è solo una crisi di inquinamento, ma anche climatica. Le emissioni di gas a effetto serra prodotte durante il ciclo di vita (Scope 1, 2 e 3) da plastica monouso nel 2021 sono state equivalenti alle emissioni totali del Regno Unito (450 milioni di tonnellate di CO₂e).
  • Il riciclaggio non riesce a crescere abbastanza velocemente e rimane un’attività marginale per il settore della plastica: dal 2019 al 2021, la crescita della plastica monouso prodotta da combustibili fossili è stata 15 volte superiore a quella della plastica riciclata. Solo un intervento normativo decisivo può risolvere ciò che equivale a un fallimento del mercato nell’aumentare il riciclaggio.
  • All’interno dell’industria petrolchimica, due valori anomali sono fermamente impegnati nel riciclaggio e nella produzione di polimeri riciclati su larga scala: il Far Eastern New Century di Taiwan e la thailandese Indorama Ventures.

Il Plastic Waste Makers Index 2023 aggiorna il benchmark con i dati fino alla fine del 2021 (la prima edizione ha coperto il 2019) e ha evidenziato che la popolazione globale ha utilizzato 139 MMT (milioni di tonnellate) di plastica monouso nel 2021, rispetto ai 133 MMT del 2019.

La composizione delle prime 20 aziende petrolchimiche con la più grande impronta di rifiuti di plastica è sorprendentemente simile alla prima PWMI. La statunitense ExxonMobil rimane il più grande produttore di polimeri destinati alla plastica monouso – responsabile solo di 6,0 MMT nel 2021 – seguita dalla cinese Sinopec (5,8 MMT) e dalla statunitense Dow terza (5,3 MMT).

Andrew Forrest AO, presidente della Minderoo Foundation, ha dichiarato: “Più plastica, più rifiuti e più inquinamento. I giganti dei combustibili fossili non stanno affrontando il problema della plastica, è il contrario, ne stanno producendo ancora di più e questo minaccia la nostra gente e il pianeta. Per l’industria petrolchimica argomentare diversamente è green washing al massimo grado.

“Abbiamo bisogno di un approccio fondamentalmente diverso che chiuda il rubinetto sulla nuova produzione di plastica. Abbiamo bisogno di incentivi finanziari che incoraggino il riutilizzo e il riciclaggio e la costruzione di nuove infrastrutture critiche”.

Tra le raccomandazioni chiave del rapporto c’è un forte invito agli investitori e alle istituzioni finanziarie a utilizzare strategie di impegno, voto per delega e disinvestimento per fare pressione sulle società petrolchimiche che costruiscono nuovi impianti di produzione di polimeri a base di combustibili fossili.

“Questo rapporto completo fornisce un utile punto di riferimento per intraprendere la ricerca sulla plastica e sul clima e gli sforzi di coinvolgimento degli azionisti”, ha dichiarato Casey Clark, Presidente e Chief Investment Officer di Rockefeller Asset Management. “Gli investitori, gli organismi di regolamentazione e la società civile hanno sottolineato la necessità di ridurre il consumo di plastica, aumentare gli sforzi di gestione dei rifiuti e passare a modalità di vita “circolari”. Anche in questo contesto, l’assunzione globale di materie prime vergini e plastica monouso continua ad aumentare”.

Clark ha aggiunto: “Nella seconda edizione del Plastic Waste Makers Index, la Minderoo Foundation, insieme ai partner di ricerca, evidenzia i collegamenti critici tra plastica e obiettivi di emissioni nette di carbonio zero”.

I maggiori emettitori di gas serra associati alla plastica monouso sono anche i maggiori produttori di polimeri. Secondo i dati analizzati da Carbon Trust e Wood Mackenzie, le emissioni di gas serra derivanti dalla plastica monouso sono equivalenti a circa 450 milioni di tonnellate di anidride carbonica, più delle emissioni totali di gas serra del Regno Unito.

L’indice rileva che, nonostante il riciclaggio offra una soluzione sia per la crisi climatica che per quella dei rifiuti – rispetto alla produzione di polimeri da combustibili fossili, produrli da rifiuti di plastica riciclati (meccanicamente) potrebbe anche spostare almeno la metà delle emissioni di gas serra – il riciclaggio non riesce a scalare al ritmo necessario per ridurre la dipendenza dalla plastica da combustibili fossili. Dal 2019 al 2021, la crescita della massa di plastica monouso da polimero vergine ha superato quella delle materie prime riciclate di un fattore quindici a uno (6 MMT contro 0,4 MMT).

KPMG ha fornito garanzie limitate sull’analisi del rapporto, che offre qualche cauta speranza per l’industria petrolchimica di svolgere un ruolo nella transizione da un’economia della plastica basata sui combustibili fossili. Far Eastern New Century di Taiwan e Indorama Ventures della Thailandia hanno preso impegni sostanziali per aumentare i loro sforzi di riciclaggio e già producono polimeri riciclati di alta qualità su scala industriale.

Dominic Charles, co-autore dell’Indice, è incoraggiato dai progressi compiuti dai trendsetter del settore, ma ha affermato che ciò non dovrebbe sminuire l’entità del compito che attende la maggior parte dei produttori di polimeri. “Guardando indietro ai due anni trascorsi da quando abbiamo puntato i riflettori sull’origine della crisi della plastica monouso, è preoccupante che un numero maggiore dei primi 50 produttori di polimeri non abbia raggiunto punteggi di circolarità più elevati. Mentre la nostra ricerca fornisce le prove necessarie ai legislatori per sviluppare una regolamentazione significativa del settore su scala globale, dovrebbe anche guidare le aziende sulla necessità di un maggiore livello di trasparenza sulle loro ambizioni e azioni di circolarità della plastica”, ha affermato Charles.

La ricerca esamina anche come i punteggi di circolarità si modellano rispetto alle affermazioni pubbliche fatte dai primi 20 produttori di polimeri. Saudi Aramco, Borealis, Dow e Braskem si distinguono in termini di discrepanza tra la loro alta frequenza di affermazioni pubbliche sulla circolarità della plastica e le loro effettive credenziali di circolarità.

Fonte: EcodalleCittà

Progetto Furious: nuovi materiali al posto della plastica

Il progetto Furious, coordinato dalla professoressa Debora Puglia dell’Università degli Studi di Perugia, ha vinto un finanziamento di 4 milioni di euro nell’ambito del bando HORIZON-JU-CBE-2022-R-01 promosso dal CBE JU (Circular Bio-based Europe Joint Undertaking). Il progetto mira a sviluppare nuovi polimeri biologici a base di acido 2,5-furandicarbossilico (FDCA) per sostituire le plastiche tradizionali in settori applicativi in cui le bioplastiche non riescono a soddisfare i requisiti tecnici necessari o dove le plastiche di origine fossile sono ancora ampiamente utilizzate.

In particolare, Furious si concentrerà sulla produzione di materiali innovativi destinati agli imballaggi per dispositivi biomedicali ed elettronici, al settore automobilistico e ai dispositivi subacquei. Gli obiettivi del progetto includono la verifica delle proprietà dei materiali FURIOUS, come la resistenza alla sterilizzazione, all’invecchiamento UV e alla vegetazione, nonché la loro processabilità attraverso diverse tecnologie, come la stampa 3D e la stereolitografia. Inoltre, verrà studiata la riciclabilità meccanica ed enzimatica dei nuovi polimeri a base di furano.

Il progetto, della durata di quattro anni, coinvolge 15 partner, tra cui atenei e aziende come l’Università di Bologna, la Stora Enso OY, la Lci Italy Srl e l’Evologics GmbH. L’obiettivo finale è quello di sviluppare soluzioni monomateriale innovative e sostenibili per il mercato, promuovendo industrie nell’ambito dell’economia circolare a base biologica e contribuendo alla riduzione dell’utilizzo di plastiche tradizionali.


A cura di Andrea Tornavacca, ESPER

Spagna, dal 2023 stop alla vendita di frutta e verdura in imballaggi usa e getta di plastica

Lo prevede una bozza di decreto diffusa dal ministero per la transizione ecologica di Madrid. Al vaglio anche un sistema di deposito su cauzione e restituzione degli imballaggi per bevande per migliorarne il riciclaggio.

Stop al monouso e istituzione di un sistema di deposito su cauzione finalizzato al riciclaggio. Sono questi i due obiettivi principali del decreto spagnolo su imballaggi e rifiuti, reso noto dal Ministero per la transizione ecologica di Madrid.

Secondo quanto emerge, la vendita di frutta e verdura in imballaggi di plastica sarà vietata nei supermercati e nei negozi di alimentari spagnoli a partire dal 2023. Il divieto si applicherà ai prodotti di peso inferiore a 1,5 chilogrammi, seguendo il modello francese, dove una misura simile è stata approvata recentemente ed entrerà in vigore già il prossimo anno.

Verrà, inoltre, istituito un sistema di deposito su cauzione che prevede il pagamento anticipato di almeno 10 centesimi di euro per ogni bottiglia di plastica o lattina, che sarà restituito al consumatore solo al momento della riconsegna dell’imballaggio, avviato poi al successivo riciclaggio.

La proposta aggiorna in maniera significativa la normativa vigente in Spagna, in vigore da 20 anni, con importanti passi in avanti verso un’economia circolare, incorporando obiettivi e misure specifici per confezionamento, distribuzione, consumatori e amministrazioni.

Deposito su cauzione obbligatorio in caso di mancato raggiungimento dei target di riciclo

Una delle misure cardine contenute nella bozza è l’implementazione di un sistema di deposito cauzionale e restituzione degli imballaggi, come già realizzato in altri Paesi europei. Il modello prevede che i consumatori lascino in deposito alcuni centesimi per ogni bottiglia di plastica o lattina, che potranno recuperare solo alla restituzione. Questo meccanismo diventerà “obbligatorio” per le bottiglie di plastica monouso e le lattine per bevande, nel caso in cui non vengano raggiunti gli obiettivi intermedi per la raccolta differenziata delle bottiglie di plastica monouso, per le bevande sotto i 3 litri: 70% nel 2023 e 85% nel 2027.

Inoltre, per i contenitori saranno approvati nuovi obblighi di etichettatura circa il loro materiale, la riciclabilità, la percentuale di materiale riciclato e il contenitore in cui devono essere depositati dopo l’utilizzo.

Stop al monouso 

Il decreto prevede, inoltre, l’obbligo per le autorità ad ogni livello governativo di “incoraggiare l’installazione di fontanelle negli spazi pubblici” e “introdurre alternative alla vendita di bevande in bottiglia”, nonché di revocare “la distribuzione di bicchieri monouso” in occasione di eventi pubblici, a partire dal 2023.

I punti vendita dovranno offrire un “numero minimo” di referenze di bevande in contenitori riutilizzabili, entro un periodo compreso tra i 12 ei 18 mesi dall’approvazione del regio decreto, a seconda delle dimensioni del negozio.

Alberghi, ristoranti e caffetterie dovrebbero utilizzare bottiglie riutilizzabili a un tasso del 50% entro il 2025. Nel caso della birra, gli obiettivi sono l’80% al 2025 e il 90% al 2030. Per le bevande analcoliche gli obiettivi sono, invece, il 70% e l’80%.

“Una pandemia: beviamo, mangiamo e respiriamo plastica”

Erano anni che i gruppi ambientalisti spagnoli si battevano per eliminare, o almeno ridurre il più possibile, la plastica dagli scaffali di supermercati e negozi alimentari.

Julio Barea di Greenpeace, ha espresso il parere favorevole dell’associazione sull’adozione delle nuove misure, ma ha anche aggiunto che sarà importante aspettare e vedere “come verranno applicate”. Beviamo plastica, mangiamo plastica e respiriamo plastica”, ha dichiarato, denunciando il pericolo di quella che ha definito, senza mezzi termini, una vera e propria “pandemia”.

Da Barea non sono poi mancate le critiche al Governo, guidato dal Partito Socialista (PSOE) e Unidas Podemos, accusato di non muoversi abbastanza in fretta “per porre fine radicalmente al flusso di inquinamento da plastica”.

Fonte: EconomiaCircolare

Plastica, Italia bene a metà. Ora tra bioplastica e riciclo il Paese è a un bivio

Per poco non arriviamo a quota 100. Non stiamo parlando di pensioni, ma di plastica. In Italia nel 2020 ne abbiamo consumati circa novantanove chilogrammi a persona. In totale sono quasi sei milioni di tonnellate, impiegate soprattutto per gli imballaggi (42 per cento del totale) e, con quote inferiori, per edilizia e settore automobilistico. «Il nostro Paese – spiega Giulia Novati del think tank Ecco – è il secondo consumatore a livello europeo». E non è un piazzamento positivo, considerato che questo materiale genera una grande quantità di gas serra, che aggravano la crisi climatica.

Ciò avviene perché, da un lato, le materie prime più usate per ottenere la plastica sono petrolio e gas e, dall’altro, perché per realizzarla viene spesso usata energia da combustibili fossili. «Il processo produttivo, il consumo e il fine vita della plastica contribuiscono al cambiamento climatico, ma anche all’inquinamento di tanti ecosistemi marini e terrestri», aggiunge Novati. Per questo, Ecco ha presentato delle proposte per ridurre i consumi, far crescere l’impiego di bioplastiche e aumentare i tassi di riciclo e riutilizzo. E la buona notizia è che i margini per abbattere le emissioni sono molto ampi, fino a un potenziale meno 98 per cento raggiungibile nel 2050. Per riuscirci, però, le scelte politiche da fare sono diverse.

Il think tank propone il divieto di vendita di frutta e verdura in confezioni di plastica, l’obbligo per le amministrazioni locali di promuovere l’installazione di fonti di acqua potabile negli spazi pubblici, il divieto di utilizzo di stoviglie monouso per il consumo sul posto in bar e ristoranti. E poi chiede l’attuazione di due provvedimenti già approvati. Il primo è la cosiddetta plastic tax, che tassa i prodotti monouso in plastica. Votata nel 2020, non è mai entrata in vigore perché sempre rimandata. Dovrebbe farlo anche il nuovo Governo, stando alle dichiarazioni di alcuni suoi rappresentanti. La logica sarebbe quella di non penalizzare i consumatori finali, ma intanto l’Italia, dal 2021, deve comunque pagare circa 800 milioni di euro l’anno all’Ue per la plastic tax europea.

Il secondo provvedimento importante, secondo Ecco, è l’attuazione del sistema di deposito su cauzione (Deposit return system – Drs) indicato nel decreto Semplificazioni bis del luglio 2021. Nonostante fosse previsto per novembre dello stesso anno, manca ancora il decreto attuativo per creare il nuovo sistema, che riguarda i contenitori per bevande in plastica, vetro e metallo. «Il decreto fa riferimento solo al riutilizzo, ma a nostro avviso il sistema dovrebbe riguardare anche il riciclo», riprende Novati.

Pagare una piccola somma come cauzione a chi riporta i vuoti è una prassi consolidata in molti paesi Ue. E ha diversi benefici. «La plastica non è un solo materiale. Ci sono tantissime tipologie differenti di polimeri», spiega Mario Grosso, docente di Gestione e trattamento dei rifiuti solidi al Politecnico di Milano. «Non è detto che il Drs porti a un minore uso delle plastiche in generale, ma a una minore produzione di plastica vergine da petrolio, quello si». Non solo.

«Aver tenuto le plastiche separate consente un riciclo di maggiore qualità. Una bottiglia, solo per fare un esempio, può essere riciclata in una nuova bottiglia, in un processo definito a ciclo chiuso, che è sempre preferibile», osserva Gaia Brussa, ricercatrice che lavora con Grosso. «Inoltre – aggiunge – la leva economica migliora il tasso di raccolta, che nei Paesi europei con sistemi Drs si attesta sopra l’ottanta per cento». In Italia, secondo Unesda, il tasso di raccolta dei contenitori Pet è del 46 per cento. Secondo diverse organizzazioni, come quelle riunite nella campagna A buon rendere, questo è uno dei dati per cui sarebbe importante implementare il prima possibile il nuovo sistema di deposito. Per altre realtà, invece, sarebbe meglio ragionare su come migliorare il sistema attuale.

Fonte: Corriere della Sera