Aumentano gli articoli di greenwashing a favore dell’immagine della plastica monouso: semplici coincidenze oppure una strategia orchestrata da parte della lobby dei produttori?

Negli ultimi anni sono cresciute a dismisura le iniziative di greenwashing e le campagne volte dimostrare che i consumatori non debbono preoccuparsi di cambiare abitudini di consumo. È veramente così o sono le inchieste sulle conseguenze indotte dall’eccessivo consumo e scarso tasso di riciclo delle plastiche monouso ad essere troppo allarmistiche ?

Quale è il target e/o lo scopo di questi articoli, presentati in modo da far credere che siano basati su fonti autorevoli? Semplice, in primis servono a far sentire meno in colpa tutta quella parte (sempre più crescente) di persone che cominciano ad interessarsi all’ambiente e non comprare più prodotti che reputano eccessivamente inquinanti. Inoltre tali articoli servono a far pensare che grazie al progresso tecnologico la nostra società sia ormai in grado di porre rimedio agli enormi problemi legati alla sovra produzione di plastica monouso di cui sta aumentando il consumo. Anche probabilmente grazie a tale iniziative di disinformazione le potentissime lobby della plastica monouso e degli imballaggi plastici che è finora riuscita, ad esempio, a posticipare l’entrata in vigore della “plastic tax”.

Questa scorrettissima tecnica di marketing è conosciuta come “greenwashing”, che letteralmente si traduce con “lavare di verde” e cerca di sviare l’attenzione dell’utente finale da un reale problema proiettando la sua attenzione verso iniziative che ripuliscono, almeno in parte, l’immagine di un determinato settore.

Un bellissimo esempio, realizzato in chiave ironica, è stato riportato sul sito di GreenMe. A seguito della notizia riguardante la dichiarazione da parte dell’Italia di avviare a riciclo il 72% dei rifiuti prodotti, ma di utilizzare solo il 21,6% di materiali riciclati rispetto a quelli consumati, la community digitale di vignette umoristiche, Legolize, ha postato una serie di immagini realizzate con personaggi di LEGO, nelle quali emerge come il precedente problema possa essere risolto “facendo un post su LinkedIN in cui si dice che la propria azienda ha piantato 100 mila alberi in Brasile“, facendoci ragionare su come si usino temi di interesse comune, come la deforestazione ed il piantare nuovi alberi, per togliere l’attenzione da ciò che non viene fatto davvero per l’ambiente.

Alcune iniziative, seppur lodevoli, fanno pensare di combattere un problema e di “vincere” contro la plastica, quando in realtà non siamo neanche vicini a fermare il problema. Nell’articolo riguardante la non profit olandese Ocean Cleanup del Corriere della Sera, si scrive di ottimi risultati raggiunti nel processo di pulizia e smantellamento dell’isola di plastica galleggiante che si trova nell’Oceano Pacifico, addirittura si parla di più di 200 tonnellate di rifiuti recuperati in mare dalla creazione dell’organizzazione, numeri impressionanti e che hanno richiesto un sicuro impegno, ma che non sono nulla paragonati alle 150 milioni di tonnellate di plastica già presenti negli oceani ed alle circa 10 milioni di tonnellate che vengono riversate ogni anno nei mari e si vanno ad aggiungere al precedente valore.

Sempre nello stesso articolo si parla anche dei danni che provocano la plastica e le particelle che vengono degradate dai raggi ultravioletti del sole, creando così la nanoplastica. Questo processo fa degradare ogni anno circa il 2% della plastica che galleggia disperdendola ovunque e sopratutto nello stomaco dei pesci che mangiamo e che contribuiscono ad immettere plastica nel nostro organismo.

Alcuni articoli, come quello de Il Mattino, sembrano addirittura volerci convincere di come questo insieme di plastica, definito “Plastisfera”, rappresenti una nuova opportunità di far riprodurre e colonizzare gli oceani alle specie costiere, come cozze, anemoni di mare e ostriche.

Altri articoli come quello dal titolo “Come riciclare plastica mista con un processo di upcycling” presentano come un processo innovativo una tecnica già in uso da vari decenni (aggiungendo il 5-10% di poliolefine alle plastiche miste triturate) con cui però sono stati finora prodotti materiali che hanno trovato come pressoché unico sbocco commerciale la produzione di autobloccanti o similari di difficile commercializzazione.

Il problema di fondo resta però sempre uno, è inutile ripulire gli oceani e cercare sempre nuovi modi di riciclare la plastica se non si inizia a produrne di meno già in partenza, magari rivoluzionando il modo di concepire i prodotti monouso o gli imballaggi plastici. Secondo i risultati monitorati ed analizzati dall’Unione Europea la soluzione più efficace per aumentare il riciclo, diminuire la produzione e la domanda di imballaggi, è il sistema di deposito cauzionale, anche denominato DRS (acronimo di Deposit Return System), metodo che permette, a fronte di una cauzione che si paga in più su un prodotto, di poter riportare i contenitori, come bottiglie e flaconi, in appositi sistemi di selezione che restituiscono la quota pagata in precedenza.

Ma si dovrebbe operare molto di più per diminuire il consumo e la produzione di plastica monouso, poiché solo in questo modo si può veramente diminuire l’inquinamento che deriva dal suo uso intensivo e sregolato. Chi cerca di convincerci che quanto non è stato fatto in passato (finora nel mondo vengono prodotti materiali plastici con il solo 2% di contenuto riciclato come denunciato in questo articolo del National Geographic che ci ricorda anche che “Riciclabile non significa riciclato”) sarà miracolosamente fatto a breve e quindi non ci dobbiamo preoccupare troppo del futuro delle prossime generazioni è, nelle migliore delle ipotesi, solo un ingenuo poco informato.


A cura di Andrea Tornavacca, ESPER

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