Negli ultimi mesi varie testate editoriali hanno elogiato i progressi della ricerca nel campo degli enzimi che riescono a degradare alcuni tipi di plastiche nei componenti di base: le migliaia di diverse tipologie di materie plastiche (spesso incompatibili fra di loro) sono infatti tutte accumunate dalla caratteristica di essere costituiti da molecole base (monomeri) che vengono trasformate in polimeri formati da catene molto lunghe dei monomeri di base. La plastica è quindi una realtà plurale, per cui sarebbe più corretto parlare di “materie plastiche”, ossia della grande varietà di polimeri, ognuno con proprie caratteristiche, proprietà e campi di applicazione anche grazie alla miscelazione con additivi o cariche varie. Le centinaia di polimeri di base composti da specifici e diversi monomeri vengono inoltre spesso miscelati per dare luogo a copolimeri con caratteristiche intermedie tra i due o più polimeri di base.
Compaiono infatti, con sempre maggiore frequenza, articoli con titoli entusiastici del tipo “Creato un enzima mangia plastica per eliminare miliardi di tonnellate di rifiuti”[1] oppure “Svolta nel trattamento dei rifiuti in plastica: ecco l’enzima che li “mangia” in 24 ore”[2] ed ancora “Enzima mangia plastica: una svolta per l’eliminazione dei rifiuti”[3] che presentano la plastica come se fosse un materiale biodegradabile al pari dell’umido o della carta. Il titolo “Gli enzimi mangia-polimeri che rendono la plastica compostabile”[4] arriva perfino a presentare la plastica come se fosse un materiale compostabile anche se poi leggendo per intero l’articolo viene correttamente spiegato che si tratta di uno studio ancora a livello sperimentale e viene affermato che “Il limite delle plastiche biodegradabili rispetto alle compostabili è che, alla fine del processo di decomposizione, rimangono nell’ambiente le dannosissime microplastiche che possono finire negli oceani e nella catena alimentare”
Il titolo di tali articoli non viene però spesso stabilito dall’autore ma deciso da titolisti assai spregiudicati che. per attirare l’attenzione dei potenziali lettori, sono sempre più abili nell’inventare titoli accattivanti che però spesso non sintetizzano correttamente quanto illustrato nel relativo articolo. Infatti, esaminando il contenuto dell’articolo della testata “Il Fatto Quotidiano” dal titolo “Plastica, in natura ci sono batteri capaci di mangiarla: è la svolta per smaltire e riciclare i rifiuti più resistenti”[5], si evince che sarebbe stato più corretto aggiungere un bel punto interrogativo al termine del titolo. Infatti leggendo l’articolo citato del Fatto Quotidiano, si può comprendere la reale portata delle ultime ricerche e cioè che “I ricercatori hanno analizzato più di 200 milioni di geni, prelevati dall’ambiente attraverso numerosi campioni di Dna. Il risultato è stato sorprendente: un batterio su quattro – tra quelli scansionati – trasporta un enzima capace di degradare la plastica. In tutto sono 30mila – secondo lo studio – gli enzimi in grado di scomporre 10 tipi di materiali plastici diversi. Presto il loro utilizzo potrebbe diventare fondamentale in campo industriale: permette infatti di scomporre rapidamente nei loro elementi costituitivi anche i materiali più difficili da riciclare. Può rendere così più semplice la loro modifica e ridurre la necessità di produrre nuova plastica.”
Si tratta quindi di un innegabile progresso che “potrebbe” (il condizionale è d’obbligo in questo caso) rendere possibile il trattamento a livello industriale di soli “10 tipi di materiali plastici diversi“ rispetto alle migliaia di polimeri attualmente in commercio (non certo diffondendo in natura tali enzimi) e comunque bisogna rammentare che dopo aver degradato il polimero bisogna poi trattare industrialmente in modo efficace il monomero ottenuto che spesso è più inquinante del polimero di partenza.
Intanto l’industria della plastica a perdere probabilmente gongola poiché, grazie alla diffusione di questi titoli entusiastici, molto consumatori si illudono di poter continuare a consumare senza alcun rimorso ogni tipo di plastica non riutilizzabile ma potenzialmente e teoricamente riciclabile. I consumatori dovrebbero però considerare che solo il 9% di tutta la plastica prodotta globalmente è stata finora correttamente riciclata come dimostrato da un recente rapporto, redatto dalla Scuola Agraria del Parco di Monza per conto di Greenpeace[6].
Pur augurandosi che le tecnologie di utilizzo degli enzimi per degradare alcune plastiche vengano al più presto realmente sviluppate a livello industriale, bisognerebbe quindi evitare di illudere i consumatori facendo pensare che, prima o poi, le plastiche abbandonate nella natura o nei mari possano essere biodegradate da questi super enzimi. Sarebbe quindi necessario che alcune testate giornalistiche ponessero in futuro maggiore attenzione al rispetto dei propri codici deontologici controllando più rigorosamente i titoli degli articoli su questi temi che rasentano in alcuni casi, spesso inconsapevolmente ed in buona fede, il cosiddetto “Greenwashing”. In caso contrario sarà infatti sempre più difficile far comprendere ai consumatori che non è più procrastinabile un cambio di abitudini (ripristinando ad es. il vuoto a rendere e cercando di evitare di consumare prodotti usa e getta) per tutelare le prossime generazioni dal quotidiano sempre maggiore aumento delle plastiche disperse nel nostro pianeta.
A cura di Attilio Tornavacca, Direttore ESPER.
[1] https://www.repubblica.it/green-and-blue/2022/04/29/news/enzima_mangia_plastica-347379781/
[2] https://www.hdblog.it/scienza/articoli/n555076/enzima-riduce-inquinamento-plastica-24-ore/
[3] https://www.lavorincasa.it/enzima-mangia-plastica-svolta-per-lo-smaltimento-dei-rifiuti-20806/
[4] https://rivistanatura.com/gli-enzimi-mangia-polimeri-che-rendono-la-plastica-compostabile/
[5]https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/01/01/plastica-in-natura-ci-sono-batteri-capaci-di-mangiarla-e-la-svolta-per-smaltire-e-riciclare-i-rifiuti-piu-resistenti/6442224/
[6] https://www.greenpeace.org/italy/rapporto/484/plastica-il-riciclo-non-basta/