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Produzione rifiuti urbani, Italia poco sotto media Ue in 2019

Gli italiani producono 499 chili di rifiuti urbani l’anno, dato di poco inferiore alla media europea di 502. Lo rende noto Eurostat. Il dato si riferisce al 2019, in leggero calo rispetto al 2012 (504 chili). I danesi producono più rifiuti di tutti (844 chili), seguiti da lussemburghesi (791) e maltesi (694) mentre tra gli altri Paesi solo la Spagna (476 chili) ne produce meno dell’Italia.
    Romania, Polonia ed Estonia sono gli Stati in cui si producono meno rifiuti urbani pro-capite. Degli Stati rilevati fuori dall’Ue, Norvegia (776 chili), Svizzera (709) e Islanda (656) sono sopra la media europea, mentre il Regno Unito si attesta al di sotto con 463 chili di rifiuti urbani pro-capite. I rifiuti urbani rappresentano il 10% dei rifiuti prodotti. Di questi il 48% in Ue viene riciclato. L’Eurostat rileva una chiara tendenza degli Stati membri a ricorrere a metodi alternativi di smaltimento dei rifiuti rispetto alla discarica.
    Dal 1995 al 2019 le tonnellate di rifiuti smaltiti in discarica sono passati da 121 a 54, un calo pari al 56%. (ANSA)

Pacchetto economia circolare, pubblicato il decreto rifiuti e imballaggi

Recepite due delle direttive che andranno a modificare il Testo Unico Ambientale per quanto riguarda la definizione di rifiuto urbano, di rifiuti speciali assimilabili, di tracciabilità e responsabilità estesa

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale ed entrerà in vigore il prossimo 26 settembre il decreto legislativo 116/20  che recepisce due delle direttive approvate due anni fa dall’Unione europea in materia di rifiuti e imballaggi e, in particolare, quella che tratta la riduzione degli scarti e il recupero di risorse. Tra gli obiettivi del provvedimento, il raggiungimento entro il 2025 del 55% di riciclo dei rifiuti urbani, mentre già nel 2030 per i soli imballaggi bisognerà aver raggiunto complessivamente il 70%. Per quanto riguarda i conferimenti in discarica, il tetto massimo dovrà essere del 10% entro il 2035.
 
Definizioni di rifiuto e responsabilità estesa –  Il decreto pubblicato va a modificare la parte quarta del decreto legislativo 152 del 2006, che si occupa di disciplinare la gestione dei rifiuti. Alla revisione del Testo unico ambientale saranno tenuti ad adeguarsi tutti i soggetti pubblici e privati che producono, raccolgono, trasportano e gestiscono rifiuti. Cambiano molte delle definizioni, a partire da quella di “rifiuto urbano”, così come cambiano le discipline di legge relative al deposito temporaneo, alla classificazione, ai criteri di ammissibilità in discarica dei rifiuti. I rifiuti speciali assimilati a quelli urbani diventano semplicemente urbani quando sono “simili per natura e composizione ai rifiuti domestici”, un’assimilazione che deriva dall’incrocio tra 15 tipologie di rifiuti (dagli organici ad “altri rifiuti non biodegradabili”) con 29 categorie di attività che li producono e che sottrae ai Comuni la possibilità di assimilazione. Ma cambia anche il ruolo dei produttori di beni di consumo, con un rafforzamento dell’istituto della responsabilità estesa, tra i principi cardine dell’impalcatura normativa disegnata dall’Ue e oggi entrata definitivamente nell’ordinamento italiano. L’entrata in vigore del decreto legislativo di recepimento della direttiva europea sui rifiuti riscrive infatti il quadro normativo nazionale in materia, preparando l’avvento del nuovo sistema di tracciabilità, si legge infatti nel decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale, che sarà “integrato nel Registro Elettronico Nazionale” istituito a seguito della conversione del Decreto Legge n. 135/2018 (e della contestuale abolizione del Sistri) e sarà gestito dall’Albo Nazionale Gestori Ambientali.

Consorzi – Il nuovo decreto inciderà profondamente sui meccanismi che regolano il sistema italiano di raccolta e gestione. Cambiano, ad esempio, le logiche di finanziamento delle differenziate, con i sistemi Epr, ovvero i consorzi afferenti al Conai nel caso dei rifiuti da imballaggio, che saranno obbligati a coprire il 100% dei “costi efficienti” di gestione (l’80% in deroga) entro il 2024.
Novità sugli impianti, decide il Ministero – Il decreto rifiuti demanda al Ministero dell’Ambiente, con il supporto tecnico di Ispra, la definizione di un “Programma nazionale di gestione dei rifiuti” con gli obiettivi, i criteri e le linee strategiche cui le Regioni e Province autonome si dovranno attenere nell’elaborazione dei Piani regionali di gestione dei rifiuti. Il programma dovrà contenere, tra l’altro, la “ricognizione impiantistica nazionale”, indicando il fabbisogno di recupero e smaltimento da soddisfare. Una misura che ridimensionerà la potestà degli enti locali, con le Regioni che dal canto loro avranno la possibilità di definire accordi per “l’individuazione di macro aree” che consentano “la razionalizzazione degli impianti dal punto di vista localizzativo, ambientale ed economico, sulla base del principio di prossimità”. 

Reazioni – “Recependo il Pacchetto Economia Circolare, il Governo dimostra attenzione nei confronti delle prospettive sostenibili per il futuro del Paese e sensibilità nei confronti delle istanze avanzate durante l’iter legislativo dal settore del recupero e riciclo dei rifiuti. Il principio dell’obbligo della detassazione va nella giusta direzione di sostenere le imprese della Green Economy e contribuisce allo sviluppo di un comparto industriale tra i più competitivi a livello europeo.” Lo dichiara in una nota Francesco Sicilia, Direttore Generale di Unirima, Unione Nazionale Imprese Recupero e Riciclo Maceri.

Fonte: E-Gazette

Rifiuti urbani, rapporto dell’Università Bicocca: ‘In Italia pochi impianti e distribuiti male’

Il Centro di economia e regolazione dei servizi, dell’industria e del settore pubblico (Cesisp) dell’Università Milano-Bicocca ha pubblicato un rapporto sulla gestione dei rifiuti urbani in Italia in merito agli aspetti giuridico-amministrativi connessi al tema della dotazione impiantistica: inceneritori, tmb, impianti di compostaggio. Un documento che espone dati e risultati relativi da una parte alla capacità di trattamento dei rifiuti a livello regionale e dall’altra all’attività di programmazione nazionale e regionale. Il tutto alla luce quattro decreti legislativi del “pacchetto economia circolare” approvati lo scorso 7 agosto dal Consiglio dei ministri, con cui vengono modificate e aggiornate la Direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti e la Direttiva 1994/62/CE sugli imballaggi e rifiuti da imballaggio.
 
Ebbene le conclusioni del paper del Cesisp (che riportiamo per intero sotto) confermano che, al netto di una situazione molto eterogenea tra le diverse aree del paese, l’Italia dal punto di vista impiantistico è decisamente carente e gli impianti esistenti sono mal distribuiti sul territorio. In alcuni territori c’è una sovracapacità, in altri un’assenza totale o quasi.


Ecco il testo: 
Nella nostra valutazione siamo partiti dalle evidenze statistiche, pubblicamente disponibili, che fotografano un Paese con performance estremamente eterogenee lungo il territorio nazionale in relazione alla gestione dei rifiuti urbani
Rispetto ai nuovi obiettivi ambientali stabiliti nel nuovo pacchetto di Economia Circolare al 2035 – 65% di raccolta differenziata e 10% di conferimento in discarica – la situazione regionale italiana presenta un forte circular divide con regioni settentrionali che hanno già raggiunto gli obiettivi comunitari e regioni meridionali che presentano gravi ritardi.
Il Paese dovrà presentare nei prossimi mesi una pianificazione strategica sia nazionale (PNGR) che regionale (PRGR) per identificare le linee di azione finalizzate al raggiungimento degli obiettivi europei. Accanto al rafforzamento della raccolta differenziata gli obiettivi di Economia Circolare rappresentano una sfida importante anche in termini tecnologici e impiantistici relativi alla capacità di trattamento e smaltimento dei rifiuti.
Il nostro contributo ha provato a sviluppare in modo semplificato una prima valutazione del fabbisogno impiantistico necessario per raggiungere gli obiettivi europei che abbiamo definito circular capacity. Sul piano metodologico, le valutazioni condotte hanno voluto portare all’attenzione anche alcune considerazioni sul piano dell’efficienza economica con riferimento al principio di autosufficienza e prossimità (ex art. 182-bis Codice dell’Ambiente) adottato dal nostro legislatore con riferimento alla gestione dei rifiuti urbani.
Abbiamo quindi stimato la circular capacity con due modalità: 
1) forte, considerando l’adeguatezza impiantistica dei diversi territori in una logica di totale autosufficienza regionale; 
2) debole, stimando l’adeguatezza secondo una logica di benchmark con le regioni più virtuose.
Nelle nostre valutazioni di merito economico è emerso quanto segue:
1) l’adozione di un concetto di circular capacity in senso stretto, nella programmazione della gestione nazionale e regionale dei rifiuti, rischia di generare delle forti diseconomie di scala nello sviluppo di nuovi impianti. In molti casi potrebbero emergere degli stranded cost paradossalmente nelle regioni attualmente più virtuose;
2) l’adozione di un concetto di circular capacity in senso esteso, nella programmazione della gestione nazionale e regionale dei rifiuti, consentirebbe di ottimizzare le economie di scala nello sviluppo dei nuovi impianti che potrebbero essere gestiti in modo più efficiente su macroaree regionali.
La nostra proposta di stima di circular capacity in senso esteso ottenuta su base comparativa consente di traguardare gli obiettivi comunitari al 2035 (65% differenziata, 10% discarica) e promuovere la convergenza di tutte le regioni italiane a quelle più virtuose (performance: 69,93% raccolta differenziata, 6,57% conferimento in discarica) attraverso una programmazione che stimi un incremento potenziale della capacità di trattamento FORSU di circa 1 Mln/Tonnellate e della capacità di termovalorizzazione di circa 2,7 Mln/Tonnellate. 
Congiuntamente all’incremento della raccolta differenziata, abbiamo stimato un eccesso di capacità installata in impianti di TMB per quasi 5 milioni di tonnellate qualora si riducesse di 4,5 milioni di tonnellate il conferimento dei rifiuti urbani in discarica (condizione che dalle nostre analisi si verificherebbe se le regioni operassero sulla frontiera di efficienza pari al 6,57% come i best performer).
Sulla base di queste prime evidenze, tuttavia, si rende necessario considerare sul piano economico un necessario trade-off tra i principi generali per la gestione in prossimità dei rifiuti urbani e quelli di efficienza economica rispetto alla dimensione impiantistica. 
Con particolare riferimento ad alcune tipologie di impianti (ad esempio i termovalorizzatori) il perimetro di prossimità previsto dall’articolo 182-bis potrebbe essere adeguato ad un perimetro di riferimento a livello di macroarea regionale al fine di garantire maggiori benefici di economie di scala connesse alla dimensione degli impianti. 
Naturalmente i benefici dovranno essere considerati al netto delle esternalità ambientali connesse alla movimentazione dei rifiuti stessi su distanze maggiori di quelle che si avrebbero con l’adozione di un principio di stretta prossimità.

Il Governo rischia di mandare “al macero” il riciclo della carta

Preoccupa molti addetti ai lavori la decisione del Ministero dell’Ambiente di assimilare rifiuti speciali recuperabili (gestiti soprattutto da privati) e rifiuti urbani (gestiti dai Comuni): “Un colpo mortale” per Unirima, “un intero settore cancellato per legge”

Insieme ai rifiuti il Governo con una modifica normativa rischia di mandare “al macero” interi comparti del settore, come quello del riciclo di carta e cartone. A quel punto sì definitivamente carta straccia anche dal punto economico. Si stanno domandando in tanti il perché della scelta del Ministero dell’Ambiente di assimilare rifiuti speciali recuperabili e rifiuti urbani. Già bell’e definita, scritta nero su bianco nel decreto con cui il Governo si appresta a recepire la direttiva quadro europea sui rifiuti, al centro della discussione in corso nelle Commissioni Ambiente di Camera e Senato. Un tecnicismo, si dirà, magari un modo per semplificare le cose, in fondo sempre di rifiuti si tratta.

E invece no. Perché i rifiuti urbani sono gestiti dai Comuni, quelli speciali riciclabili in gran parte dai privati. E dunque, far passare il testo che ha già incassato il parere favorevole della Conferenza Stato-Regioni, così come è scritto, senza eliminare quell’equiparazione nella catalogazione tra le due tipologie di rifiuti, significherebbe innescare un effetto domino sul mercato, con ripercussioni negative su alcuni comparti del settore.PUBBLICITÀ

Quello del recupero e del riciclo di carta e cartone, ad esempio, come fa notare Francesco Sicilia, che parla di “colpo mortale”. Il direttore generale dell’Unirima, l’Unione nazionale Imprese Recupero e Riciclo Maceri, si dice “fortemente preoccupato” e per più di una ragione. La prima deriva dal fatto che a differenza dei rifiuti urbani, di proprietà dei Comuni, quelli speciali recuperabili sono in gran parte gestiti da privati, dal cosiddetto mercato. “Con la “trasformazione” decisa dal Ministero – spiega Sicilia – oltre otto milioni di tonnellate di rifiuti speciali riciclabili diventati di colpourbani verrebbero sottratte al mercato delle imprese del riciclo, per essere sottoposte alla privativa comunale, con gravi ripercussioni economiche e perdita di competitività del settore”.

Una vera e propria “distorsione del sistema”, rincara la dose il direttore generale di Unirima, prefigurando il rischio di un quadro di incertezza sulle attività di riciclo che, numeri alla mano, nel nostro Paese sviluppano oltre 2 miliardi di euro di investimenti e collocano l’Italia, con il 2,1%, al primo posto tra i maggiori paesi europei per quota di occupati nell’economia circolare, davanti a Spagna (2%), a Regno Unito (1,6%), Francia (1,5%) e Germania (1,5%) – la media Eu è pari all’1,7%.

Né la scelta del ministero può essere motivata sulla base di eventuali inefficienze del sistema di gestione dei rifiuti speciali recuperabili perché “come si evince dati in tale settore siamo leader in Europa. In un paese con carenza cronica di materie prime come il nostro, tale comparto rappresenta da sempre un’eccellenza e in alcuni settori – come la carta – dove la raccolta da rifiuti speciali pesa per circa il 60% ed è gestita da imprese private, l’Italia ha raggiunto con 10 anni di anticipo gli obiettivi che la comunità europea si è data per il 2025”, ragiona Sicilia. E aggiunge: “il legislatore europeo ha voluto precisare che le definizioni di rifiuti “urbani” e “rifiuti simili” sono tali solo ed esclusivamente ai fini dei calcoli degli obiettivi di riciclo fissati nella direttiva, non per affidarne la gestione e quindi “la privativa” esclusivamente ai Comuni”.

Allora che fare? La soluzione, per Unirima, è mantenere inalterata la distinzione tra rifiuti speciali riciclabili e rifiuti urbani e nella gestione, tra pubblico e privato recependo così com’è la direttiva quadro europea che ha come obiettivo quello di rendere il più possibile circolare l’economia, incentivando recupero e riutilizzo. Ma, altro che mercato ed economia circolare, le modifiche introdotte dal Ministero dell’Ambiente, “somigliano piuttosto a una statalizzazione forzata del sistema”. Sfugge ai più l’obiettivo finale: c’è chi sostiene possa essere quello di aumentare la base imponibile della tassazione alle attività che producono rifiuti speciali riciclabili. “Il motivo non mi è chiaro – taglia corto Sicilia – so per certo però che se non si tornasse indietro, un intero settore, vitale per l’economia del Paese, verrebbe cancellato per legge”.

Fonte: Huffington Post

Riutilizzo RSU, un tesoro da 600.000 tonnellate annue

Presentato a Roma il Rapporto Nazionale dell’Occhio del Riciclone. Il 2% potrebbe essere riutilizzato con un risparmio di 60 milioni di euro. Ma è necessario una quadro normativo che favorisca lo sviluppo delle filiere

Tra i rifiuti prodotti in Italia c’è un piccolo tesoro che non viene adeguatamente valorizzato. Si tratta dei beni durevoli, potenzialmente riutilizzabili, che potrebbero trovare nuova vita se esistesse il modo di reimmetterli in circolazione. Lo evidenzia il Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2018 presentato oggi a Roma e realizzato da Occhio del Riciclone in collaborazione con Utilitalia, la Federazione delle imprese italiane dei servizi idrici, energetici e ambientali.

I beni durevoli riutilizzabili (considerando solo quelli in buono stato e facilmente collocabili sul mercato) presenti nel flusso dei rifiuti urbani superano le 600.000 tonnellate annue, circa il 2% della produzione nazionale di rifiuti. Si tratta di mobili, elettrodomestici, libri, giocattoli e oggettistica che, in mancanza di un quadro normativo capace di favorire la strutturazione di vere e proprie filiere, quasi mai vengono riutilizzati: il danno ammonta a circa 60 milioni di euro l’anno relativo ai costi di smaltimento, senza considerare il valore degli oggetti di seconda mano.

Molte sono le iniziative che possono essere messe in campo per valorizzare adeguatamente questo tesoro. Ad esempio raccolte dedicate e centri di riuso interni o adiacenti ai centri di raccolta in grado di intercettare i beni durevoli riutilizzabili. Ma al di là dei sistemi di intercettazione, sono necessari impianti di “preparazione per il riutilizzo” che funzionino su scala industriale: attraverso un’autorizzazione al trattamento, un impianto può ricevere rifiuti provenienti dai centri di raccolta comunali e dalle raccolte domiciliari degli ingombranti e reimmetterli in circolazione dopo igienizzazione, controllo ed eventuale riparazione. La fattibilità di questi impianti è stata dimostrata in provincia di Vicenza dal progetto europeo PRISCA, che ha implementato un impianto capace   avviare a riutilizzo circa 400 tonnellate l’anno di rifiuti provenienti da centri di raccolta, raccolte di ingombranti e servizi di sgombero locali.

Questa possibilità di strutturazione della filiera è però inibita dalla mancanza dei Decreti Ministeriali che dovrebbero mettere in chiaro le procedure semplificate per compiere questo tipo di trattamento.  “In Italia – spiega Pietro Luppi, Direttore del Centro di Ricerca Occhio del Riciclone – già da alcuni anni si parla di integrare il settore del riutilizzo alle politiche ambientali, e i tempi sembrano essere maturi perché si arrivi a un punto di svolta a partire dal quale le filiere si articoleranno, struttureranno e regolarizzeranno. Bisogna però insistere sulla professionalizzazione e sulla pianificazione, nella coscienza che il riutilizzo non è un gioco ma un enorme opportunità per generare sviluppo locale e risultati ambientali”.

L’INIZIATIVA PRIVATA E QUELLA PUBBLICA

Nel nostro Paese i negozi dell’usato conto terzi e il commercio ambulante si confermano come leader nella vendita dell’usato. Si contano circa 2.000-3.000 negozi in conto terzi distribuiti sull’intero territorio nazionale, una formula commerciale praticata soprattutto al Nord e al Centro, dove è presente circa un negozio ogni 31.000 abitanti, mentre al Sud se ne conta uno ogni 87.000. I mercatini che ospitano commercianti ambulanti sono invece almeno 550, senza contare quelli informali o abusivi: 337 al Nord, 152 al Centro e 61 al Sud. Il totale degli operatori ambulanti dell’usato è difficile da calcolare ma si presume si aggiri tra le 50.000 e le 80.000 unità.

L’iniziativa privata trova oggi grande diffusione nonostante siano scarse le sinergie con gli Enti Locali. Sono solo 9 le Regioni – Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Umbria, Abruzzo e Campania – che hanno incluso nella loro pianificazione ambientale l’avvio di Centri di Riuso da affiancare ai Centri di Raccolta dei Rifiuti Urbani, ma in questi anni tali esperienze non sono mai decollate. Eppure non mancano gli esempi positivi, come il progetto “Cambia il finale” di Hera (la multiutility leader in Emilia-Romagna) che è riuscita a riutilizzare 530 tonnellate di beni durevoli in un anno a fronte di un bacino di circa 2 milioni di abitanti, coinvolgendo 25 Onlus e un centinaio di soggetti svantaggiati. “Le aziende di igiene urbana – sottolinea Filippo Brandolini, vicepresidente Utilitalia –  svolgono un ruolo cruciale nella transizione verso un’economia circolare. Sempre più spesso, infatti, non si limitano a gestire i rifiuti conferiti dai cittadini ma diventano promotrici di iniziative innovative che, come nel caso del riutilizzo, alimentano filiere al alto valore (umano, ambientale, economico e sociale) aggiunto. Per questo Utilitalia, da sempre in prima fila nella promozione di politiche di prevenzione dei rifiuti, dialoga apertamente con le amministrazioni e il mondo dell’usato per cercare insieme modelli, sinergie e forme e di collaborazione che sappiano promuovere un utilizzo efficiente e sostenibile delle risorse ambientali ed umane”.

IL CASO DEGLI ABITI USATI

Al momento, nel nostro Paese, le filiere degli indumenti usati sono senza alcun dubbio le più articolate e strutturate: nel 2016 sono state infatti raccolte 133.300 tonnellate di rifiuti tessili, il 65% delle quali è stato riutilizzato (il rimanente 35% è stato avviato a riciclo, recupero o smaltimento). Ma il potenziale di riutilizzo della frazione tessile in realtà è molto più elevato: in presenza di azioni capaci di comunicare la finalità solidale delle raccolte e la trasparenza delle filiere, il risultato   potrebbe raddoppiare superando i 5 kg di raccolta ad abitante. “Chi dona abiti usati consegnandoli nei contenitori stradali – evidenzia Alessandro Strada di Humana People to People Italia – lo fa con intenzioni solidali nell’84% dei casi, e ciò dimostra come il cittadino chieda che le considerazioni di carattere sociale trovino spazio all’interno degli affidamenti del servizio di raccolta differenziata e recupero della frazione tessile”. Eppure non mancano le criticità che spaziano dai reati ambientali all’infiltrazione mafiosa: gli operatori sani hanno sollevato il problema chiedendo strumenti di controllo più rigorosi e criteri di affidamento del servizio più attenti al funzionamento delle filiere. Utilitalia, Rete ONU e centro Nuovo Modello di Sviluppo hanno aperto un Tavolo di confronto con il settore per individuare linee guida finalizzate a prevenire tali criticità.

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