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Linee guida sugli indumenti usati. Occhio del Riciclone: ‘Un passo concreto verso la pulizia del settore’

Dopo un travagliato dibattito durato oltre due anni, lo scorso 8 gennaio Utiitalia ha finalmente presentato le sue Linee Guida per l’affidamento del servizio di gestione degli indumenti usati. Ossia la raccolta e il recupero dei vestiti usati che milioni di cittadini conferiscono ogni giorno in decine di migliaia di cassonetti stradali. Un’attività che fa parte a pieno titolo della raccolta differenziata dei rifiuti urbani ma che si intreccia storicamente con l’azione di Caritas e di altri enti solidali. Purtroppo le filiere che nascono da quest’attività sono da tempo infiltrate dalla criminalità organizzata e sono caratterizzate da gravi delitti ambientali. Gli enti solidali hanno spesso rappresentato la faccia pulita e il primo anello di una filiera i cui principali beneficiari sono camorristi che riciclano il denaro e alimentano la terra dei fuochi. Data la magnitudine del problema, nel 2018 la Commissione Bicamerale “Ecomafie” ha deciso nel 2018 di aprire un filone d’inchiesta specifico proprio sugli abiti usati. Ma le vicende giudiziarie dimostrano che i criminali chiudono e aprono le loro imprese in un batter d’occhio contando sulla solidità delle loro fonti di approvvigionamento locali, ossia sugli operatori che raccolgono il rifiuto tessile e che spesso appongono sui contenitori stradali loghi accattivanti e che alludono ad azioni solidali o caritatevoli. E’ importante quindi combattere il fenomeno alla radice, puntando sulla prevenzione ancor prima che sulla punizione, creando meccanismi che escludano le filiere sporche a partire dall’affidamento del servizio di raccolta. In questo senso, le Linee Guida di Utilitalia rappresentano un passo fondamentale e sono un’ottima notizia per tutti coloro che hanno a cuore la buona salute del settore. Ovviamente Utilitalia, in quanto associazione di categoria delle aziende di igiene urbana, non può imporre alle proprie affiliate come scrivere le gare. Ma le Linee Guida introducono il principio che chi affida il servizio deve farsi responsabile della destinazione degli indumenti e danno indicazioni concrete a tutte le stazioni appaltanti che vogliano favorire le filiere più etiche e trasparenti. Verificare che gli impianti di trattamento abbiano una regolare autorizzazione non è assolutamente sufficiente. Di fatti, lo scorso autunno il Procuratore Ettore Squillace Greco ha confermato alla Commissione Ecomafie che le infiltrazioni criminali riguardano soprattutto le filiere autorizzate. I cassonetti abusivi, per quanto dannosi e irregolari, non sono la parte più importante del problema. I criminali di maggiore caratura mirano ai flussi principali, non ai rivoletti irregolari dell’abusivismo. A essere coinvolto nelle inchieste è anche, o soprattutto, il mainstream: i grossi player, quelli che controllano il mercato e gestiscono gli indumenti di buona qualità provenienti dalle zone più ricche del Nord.

Le Linee Guida riguardano ovviamente le filiere autorizzate, e pertanto una loro applicazione generalizzata potrebbe veramente colpire al cuore gli interessi criminali e aprire una fase di riforma positiva delle filiere. Sempre e quando le resistenze del settore non siano troppo forti e vanifichino tutto quanto.

Come in una fotografia, il documento di Utilitalia enumera le modalità di gara attualmente vigenti: il primo tipo di affidamento è il più diffuso, riguarda solo la raccolta e non offre reali garanzie di trasparenza. Il secondo tipo prevede uno spacchettamento dei servizi di raccolta e recupero e presenta forti difficoltà di applicazione perché spezza il ciclo di qualità della filiera. La terza opzione estende l’oggetto del servizio non solo alla raccolta ma anche al recupero, e se gestita in un certo modo può offrire le maggiori garanzie di eticità e trasparenza. Ciò naturalmente comporta un maggiore sforzo di strutturazione da parte di chi si voglia candidare a gestire il servizio. Occorre infatti disporre di un proprio impianto di recupero, oppure impegnarsi in accordi formali di rete con titolari di impianti di recupero, oppure sommare le proprie forze ad altri operatori della raccolta per gestire gli impianti di recupero in maniera consorziata: tutte ottime soluzioni che consentiranno alle stazioni appaltanti di esigere i certificati antimafia ai titolari degli impianti e avere informazioni su quello che fanno.

Le Linee Guida fissano poi un altro importantissimo principio: gli operatori che ottengono vantaggi competitivi o di immagine dichiarando di essere solidali dovrebbero portare prove al rispetto. Tra il dire e il fare, infatti, c’è di mezzo il mare. Se il modo di fare solidarietà è impiegare soggetti svantaggiati, occorre dimostrare la validità dei progetti di reinserimento e indicare con precisione quali sono gli svantaggiati effettivamente coinvolti nel servizio oggetto della gara. Se la solidarietà invece viene fatta usando i margini della vendita dei vestiti per erogare cifre di denaro a progetti sociali, bisognerà dichiarare l’esatta entità di questo contributo solidale e saperne spiegare l’impatto sulle iniziative finanziate. Se i vestiti vengono donati ad enti solidali che poi se li rivendono, va da sé che il contributo dichiarato non possa riferirsi a un presunto prezzo di mercato all’ingrosso evitato ma debba essere strettamente aderente all’effettiva cifra di denaro destinata alla solidarietà al termine di tutti i cicli di vendita.

Ma i relatori del convegno dell’8 gennaio hanno fatto notare come, in questo periodo di crisi del mercato, per gli operatori sia molto complicato ottenere margini economici per la solidarietà: quindi c’è il rischio concreto che, nonostante possa essere dichiarata, non esista una vera attività solidale; oppure che abbia smesso di esistere lasciando la priorità alla sopravvivenza delle strutture. Infatti a causa del fast fashion e di altri fattori tendenziali aumentano i vestiti da raccogliere e di conseguenza aumentano anche i costi di raccolta. Ma allo stesso tempo la qualità dei vestiti diminuisce vertiginosamente, riducendo i ricavi ottenuti grazie a riutilizzo e mercato dell’usato e facendo levitare i costi legati a riciclaggio e smaltimento. Quindi i punti di equilibrio economici stanno saltando, i margini non ci sono quasi più e saranno sempre più difficili da ottenere.

Per superare tale crisi, che colpisce nella stessa misura sia gli operatori profit che quelli non profit, è fondamentale che i produttori e distributori di abiti nuovi inizino coprire parte dei costi della filiera in virtù delle norme sulla responsabilità estesa del produttore. Altrimenti la situazione rischia di precipitare. L’8 gennaio il Presidente della Commissione Ecomafie Stefano Vignaroli ha lanciato un segnale d’allarme molto chiaro: gli operatori meno etici potrebbero reagire alla crisi moltiplicando i delitti ambientali al fine di ottenere illeciti risparmi. Altri relatori del convegno hanno denunciato una grave tendenza già in atto: per dare sbocco ai vestiti di bassa qualità gli operatori della raccolta e del recupero si rivolgono sempre di più ad operatori indiani e pakistani che fanno riciclo di scarsa qualità, impiegano lavoro minorile e accendono roghi incontrollati con gli scarti di selezione.

Pietro Luppi – L’Occhio del Riciclone
fonte: Eco dalle Città

Riutilizzo RSU, un tesoro da 600.000 tonnellate annue

Presentato a Roma il Rapporto Nazionale dell’Occhio del Riciclone. Il 2% potrebbe essere riutilizzato con un risparmio di 60 milioni di euro. Ma è necessario una quadro normativo che favorisca lo sviluppo delle filiere

Tra i rifiuti prodotti in Italia c’è un piccolo tesoro che non viene adeguatamente valorizzato. Si tratta dei beni durevoli, potenzialmente riutilizzabili, che potrebbero trovare nuova vita se esistesse il modo di reimmetterli in circolazione. Lo evidenzia il Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2018 presentato oggi a Roma e realizzato da Occhio del Riciclone in collaborazione con Utilitalia, la Federazione delle imprese italiane dei servizi idrici, energetici e ambientali.

I beni durevoli riutilizzabili (considerando solo quelli in buono stato e facilmente collocabili sul mercato) presenti nel flusso dei rifiuti urbani superano le 600.000 tonnellate annue, circa il 2% della produzione nazionale di rifiuti. Si tratta di mobili, elettrodomestici, libri, giocattoli e oggettistica che, in mancanza di un quadro normativo capace di favorire la strutturazione di vere e proprie filiere, quasi mai vengono riutilizzati: il danno ammonta a circa 60 milioni di euro l’anno relativo ai costi di smaltimento, senza considerare il valore degli oggetti di seconda mano.

Molte sono le iniziative che possono essere messe in campo per valorizzare adeguatamente questo tesoro. Ad esempio raccolte dedicate e centri di riuso interni o adiacenti ai centri di raccolta in grado di intercettare i beni durevoli riutilizzabili. Ma al di là dei sistemi di intercettazione, sono necessari impianti di “preparazione per il riutilizzo” che funzionino su scala industriale: attraverso un’autorizzazione al trattamento, un impianto può ricevere rifiuti provenienti dai centri di raccolta comunali e dalle raccolte domiciliari degli ingombranti e reimmetterli in circolazione dopo igienizzazione, controllo ed eventuale riparazione. La fattibilità di questi impianti è stata dimostrata in provincia di Vicenza dal progetto europeo PRISCA, che ha implementato un impianto capace   avviare a riutilizzo circa 400 tonnellate l’anno di rifiuti provenienti da centri di raccolta, raccolte di ingombranti e servizi di sgombero locali.

Questa possibilità di strutturazione della filiera è però inibita dalla mancanza dei Decreti Ministeriali che dovrebbero mettere in chiaro le procedure semplificate per compiere questo tipo di trattamento.  “In Italia – spiega Pietro Luppi, Direttore del Centro di Ricerca Occhio del Riciclone – già da alcuni anni si parla di integrare il settore del riutilizzo alle politiche ambientali, e i tempi sembrano essere maturi perché si arrivi a un punto di svolta a partire dal quale le filiere si articoleranno, struttureranno e regolarizzeranno. Bisogna però insistere sulla professionalizzazione e sulla pianificazione, nella coscienza che il riutilizzo non è un gioco ma un enorme opportunità per generare sviluppo locale e risultati ambientali”.

L’INIZIATIVA PRIVATA E QUELLA PUBBLICA

Nel nostro Paese i negozi dell’usato conto terzi e il commercio ambulante si confermano come leader nella vendita dell’usato. Si contano circa 2.000-3.000 negozi in conto terzi distribuiti sull’intero territorio nazionale, una formula commerciale praticata soprattutto al Nord e al Centro, dove è presente circa un negozio ogni 31.000 abitanti, mentre al Sud se ne conta uno ogni 87.000. I mercatini che ospitano commercianti ambulanti sono invece almeno 550, senza contare quelli informali o abusivi: 337 al Nord, 152 al Centro e 61 al Sud. Il totale degli operatori ambulanti dell’usato è difficile da calcolare ma si presume si aggiri tra le 50.000 e le 80.000 unità.

L’iniziativa privata trova oggi grande diffusione nonostante siano scarse le sinergie con gli Enti Locali. Sono solo 9 le Regioni – Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Umbria, Abruzzo e Campania – che hanno incluso nella loro pianificazione ambientale l’avvio di Centri di Riuso da affiancare ai Centri di Raccolta dei Rifiuti Urbani, ma in questi anni tali esperienze non sono mai decollate. Eppure non mancano gli esempi positivi, come il progetto “Cambia il finale” di Hera (la multiutility leader in Emilia-Romagna) che è riuscita a riutilizzare 530 tonnellate di beni durevoli in un anno a fronte di un bacino di circa 2 milioni di abitanti, coinvolgendo 25 Onlus e un centinaio di soggetti svantaggiati. “Le aziende di igiene urbana – sottolinea Filippo Brandolini, vicepresidente Utilitalia –  svolgono un ruolo cruciale nella transizione verso un’economia circolare. Sempre più spesso, infatti, non si limitano a gestire i rifiuti conferiti dai cittadini ma diventano promotrici di iniziative innovative che, come nel caso del riutilizzo, alimentano filiere al alto valore (umano, ambientale, economico e sociale) aggiunto. Per questo Utilitalia, da sempre in prima fila nella promozione di politiche di prevenzione dei rifiuti, dialoga apertamente con le amministrazioni e il mondo dell’usato per cercare insieme modelli, sinergie e forme e di collaborazione che sappiano promuovere un utilizzo efficiente e sostenibile delle risorse ambientali ed umane”.

IL CASO DEGLI ABITI USATI

Al momento, nel nostro Paese, le filiere degli indumenti usati sono senza alcun dubbio le più articolate e strutturate: nel 2016 sono state infatti raccolte 133.300 tonnellate di rifiuti tessili, il 65% delle quali è stato riutilizzato (il rimanente 35% è stato avviato a riciclo, recupero o smaltimento). Ma il potenziale di riutilizzo della frazione tessile in realtà è molto più elevato: in presenza di azioni capaci di comunicare la finalità solidale delle raccolte e la trasparenza delle filiere, il risultato   potrebbe raddoppiare superando i 5 kg di raccolta ad abitante. “Chi dona abiti usati consegnandoli nei contenitori stradali – evidenzia Alessandro Strada di Humana People to People Italia – lo fa con intenzioni solidali nell’84% dei casi, e ciò dimostra come il cittadino chieda che le considerazioni di carattere sociale trovino spazio all’interno degli affidamenti del servizio di raccolta differenziata e recupero della frazione tessile”. Eppure non mancano le criticità che spaziano dai reati ambientali all’infiltrazione mafiosa: gli operatori sani hanno sollevato il problema chiedendo strumenti di controllo più rigorosi e criteri di affidamento del servizio più attenti al funzionamento delle filiere. Utilitalia, Rete ONU e centro Nuovo Modello di Sviluppo hanno aperto un Tavolo di confronto con il settore per individuare linee guida finalizzate a prevenire tali criticità.

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