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Plastica compostabile: Biorepack e Assobioplastiche rispondono a Greenpeace che a sua volta controreplica

Negli ultimi giorni Greenpeace Italia ha pubblicato una indagine volta a sottolineare le criticità presenti nella filiera della plastica compostabile poichè, secondo quanto emerso nell’indagine pubblicata in esclusiva sul sito www.ilfattoquotidiano.it nell’ambito della campagna “Carrelli di plastica”, sono presenti una serie di problemi riguardanti soprattutto la corretta gestione di questi rifiuti che in Italia vengono conferiti nell’umido. Secondo Greenpeace queste bioplastiche vengono trattate in impianti anaerobici dove difficilmente vengono poi degradate mentre la restante parte finisce in siti di compostaggio, ma anche qua la degradazione non è garantita poiché non è detto che rimangano nel sito abbastanza a lungo. Tra i soggetti intervistati da Greenpeace vi è anche il direttore tecnico di Biorepack, Ing. Carmine Pagnozzi, che ha inoltre dichiarato: “In alcuni impianti gli imballaggi in bioplastica sono vittime del processo di vagliatura. La fase di vagliatura nasce per eliminare i materiali non compostabili che purtroppo finiscono nella frazione organica, compromettendone la qualità. Peccato però che in questo modo, insieme ai materiali non conformi, la vagliatura porti via anche l’umido, fino a un terzo del totale, nonché le bioplastiche”.

Greenpeace ha poi precisato che gli shopper in bioplastica compostabile non rientrano tra i manufatti con problemi di degradazione negli impianti riconoscendo il valore positivo della legge nazionale sugli shoppers,

Tra i vari punti che ha evidenziato Greenpeace vi era però anche la logica del monouso che viene comunque mantenuta anche in favore della sostituzione delle plastiche rigide non compostabili con quelle compostabili (ad es. le stoviglie monouso). Si tratta delle stesse perplessità condivise dall’Europa nel parere circostanziato recentemente inviato al governo italiano e che espone l’Italia al rischio di una procedura d’infrazione. Assobioplastiche e Biorepack hanno risposto a questa indagine con una pubblicazione a pagamento nei quotidiani nazionali più diffusi dove hanno specificato che nessun attore della filiera delle bioplastiche ha mai promosso la sostituzione 1:1 della plastica monouso con la bioplastica monouso ma si è solo cercato di andare a trovare la soluzione per problemi riguardanti i materiali non compostabili già presenti nell’umido e che “gli impianti di riciclo organico che non trattano le bioplastiche compostabili rappresentano poche eccezioni dovute a particolari sistemi di pretrattamento”..

Biorepack e Assobioplastiche sostengono infine che, invece di avviare una crociata contro le bioplastiche occorrerebbe “interrogarsi su quegli impianti che se seguono cicli di riciclo organico troppo brevi, hanno un umido troppo inquinato da materiali non compostabili (e quindi finiscono per scartare anche le matrici compostabili), così come su quegli impianti che hanno scientemente deciso, per massimizzare la produzione di biogas, di selezionare solo alcune matrici da trattare, scartando tutto il resto, sia umido che bioplastiche”.

Nell’articolo dello scorso 21 maggio 2022, pubblicato sul Fatto quotidiano a firma di Luisiana Gaita, è stato quindi chiesto al dott. Luca Mariotto, direttore del Settore Ambiente di UTILITALIA, l’associazione delle imprese pubbliche del settore, quanti siano in Italia gli impianti in grado di trattare efficacemente le plastiche compostabili. Secondo il direttore : “È difficile quantificare quanti siano, sicuramente meno della metà, ma la legge di questo non ha tenuto conto”.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

GreenPeace: indicazioni per il recepimento della direttiva SUP in Italia

Le scelte a cui sarà chiamato il nostro governo nelle prossime settimane impatteranno profondamente sulla capacità del Paese di accelerare la transizione verso un modello economico circolare che favorisca la riduzione del consumo di risorse naturali e della pressione esercitata dalle attività umane sugli ecosistemi. Cambiare il paradigma della crescita economica è fondamentale per ricondurre lo sviluppo sui binari della sostenibilità ed evitare i peggiori scenari delineati dalla comunità scientifica internazionale. Nel rapporto in oggetto, ci siamo concentrati sulla filiera della plastica, con particolare riguardo agli impatti ambientali legati alla diffusione e dispersione nell’ambiente degli articoli monouso: prodotti su cui l’Italia dovrà a breve intervenire col recepimento della Direttiva 2019/904/UE “sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente” (cd. Direttiva SUP 2 ) entro il prossimo 3 luglio. Non nascondiamo la nostra preoccupazione per un recepimento “al ribasso”, disallineato rispetto ai contenuti della Direttiva e più in generale rispetto al quadro di riferimento europeo sulla transizione in ottica circolare dei modelli prevalenti di produzione e consumo.

La plastica è un materiale straordinario per la sua duttilità, economicità, leggerezza e resistenza il cui abuso, soprattutto in applicazioni monouso, porta con sé uno spreco di risorse non rinnovabili che inquinano, in modo pressoché irreversibile, i nostri mari, il Pianeta e le nostre vite oltre a contribuire in maniera decisiva alla crisi climatica. La sostituzione “tout court” della plastica “fossile” con altri materiali (ivi inclusi i materiali biobased certificati come biodegradabili e compostabili) appare una scelta sbagliata, guidata da esigenze di marketing e inadeguata rispetto alla complessità delle sfide ambientali che abbiamo di fronte. La sostenibilità non è una prerogativa dei materiali, ma del modo in cui vengono utilizzati nel ciclo economico. Insieme al recepimento della Direttiva SUP, anche il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) offre al governo italiano l’occasione concreta per affrontare le sfide ambientali connesse alla diffusione del monouso in plastica, ma più in generale, del monouso.

La direttiva comunitaria sulle plastiche monouso e le azioni intraprese dagli altri paesi europei

Greenpeace nelle scorse settimane ha affidato a un consulente indipendente (Ingegnere Paolo Azzurro, consulente tecnico in materia di rifiuti ed economia circolare) la redazione del rapporto “Dalla riduzione del monouso in plastica alla riduzione del monouso: indicazioni per il recepimento della direttiva SUP in Italia” volto ad esaminare le prospettive per il recepimento della direttiva comunitaria tenendo presente il quadro normativo europeo, le iniziative intraprese da altri Stati e, infine, analizzare le misure adottate fino ad oggi nel nostro Paese.

L’uso crescente di materie plastiche in applicazioni monouso, il basso tasso di riciclo, la dispersione nell’ambiente e il contributo al cambiamento climatico hanno spinto l’Europa ad intervenire con una serie di misure collocate nel quadro più ampio del Piano d’azione sull’economia circolare e, nello specifico, nell’ambito della Strategia sulla plastica (Plastic Strategy) adottata nel 2018. I vari interventi normativi hanno l’obiettivo di rendere tutti gli imballaggi immessi sul mercato europeo riutilizzabili o riciclabili “in modo efficace sotto il profilo dei costi” entro il 2030, ponendo particolare attenzione alla prevenzione e alla diffusione di soluzioni basate sul riutilizzo, al fine di ridurre il consumo di risorse naturali, la quantità di rifiuti prodotti e la dispersione degli stessi nell’ambiente. Tali direttrici sono peraltro presenti sia nel Green Deal europeo che nel nuovo Piano d’azione per l’economia circolare presentato a marzo del 2020.

La Direttiva SUP, approvata nel maggio 2019, si pone l’obiettivo di contrastare la dispersione di rifiuti da prodotti in plastica monouso nell’ambiente marino e prevede, in estrema sintesi: 1) la messa al bando di piatti, stoviglie, cannucce, bastoncini cotonati, aste per palloncini, mescolatori per bevande, contenitori per alimenti e bevande in polistirene espanso 2) riduzione del consumo di tazze per bevande e alcuni contenitori in plastica monouso per alimenti 3) requisiti di progettazione per i contenitori in plastica o compositi per bevande (i tappi e i coperchi in plastica dovranno essere attaccati ai relativi contenitori e le bottiglie in PET dovranno contenere almeno il 30% di materiale riciclato entro il 2030) 4) istituzione di regimi di responsabilità estesa del produttore (EPR) per alcune tipologie di prodotti in plastica diversi dagli imballaggi (filtri per prodotti a base di tabacco, palloncini, salviette umidificate e attrezzi da pesca) ed estensione della responsabilità finanziaria dei produttori degli imballaggi oggetto della Direttiva (contenitori per alimenti, involucri flessibili, contenitori per bevande, tazze, sacchetti ultraleggeri) anche ai costi necessari per la rimozione dei relativi rifiuti dispersi nell’ambiente e per il successivo trasporto e trattamento 5) obiettivi di raccolta differenziata (90% entro il 2029) per le bottiglie in plastica per bevande con capacità fino a tre litri 6) misure di sensibilizzazione e requisiti di marcatura per alcune tipologie di prodotti (per un elenco dettagliato si rimanda al report completo). Va inoltre evidenziato che la Direttiva SUP include nel suo campo di applicazione i prodotti in plastica monouso biodegradabili e compostabili. La definizione di plastica riportata all’art. 3 comma 1 della Direttiva esclude infatti i soli “polimeri naturali che non sono stati modificati chimicamente”. Le principali plastiche biobased comunemente utilizzate per la realizzazione di articoli in plastica monouso biodegradabili e compostabili derivano da polimeri naturali modificati chimicamente realizzati a partire dalla trasformazione degli zuccheri presenti nel mais, barbabietola, canna da zucchero e altri materiali naturali e sono pertanto inclusi nel perimetro di applicazione della Direttiva.

Il recepimento della SUP in Italia

L’approccio adottato dalle norme vigenti in Italia per contrastare la plastica monouso risulta privo di una visione sistemica e fortemente sbilanciato a favore di una sostituzione tout court con alternative monouso in plastica compostabile. La maggior parte delle misure adottate a livello nazionale, infatti, ha promosso e incentivato la sostituzione dei prodotti monouso in plastica tradizionale con gli equivalenti in bioplastica compostabile, anche in quei contesti dove sarebbe stato possibile e necessario adottare misure volte a ridurre l’utilizzo del monouso (a prescindere dal materiale utilizzato) e promuovere sistemi e modelli di business basati su prodotti riutilizzabili. Riguardo il recepimento della Direttiva SUP, va inoltre rilevato che il testo approvato in seconda lettura alla Camera (il 31 marzo 2021) del Disegno di legge di delegazione europea 2019-2020 3 , dispone, contrariamente a quanto previsto dall’Europa, che l’immissione sul mercato dei prodotti in plastica monouso di cui alla parte B dell’allegato alla Direttiva, ovvero i prodotti soggetti a restrizioni all’immissione sul mercato, dovrà essere consentita “qualora per tali prodotti non siano disponibili alternative non monouso, e purché tali prodotti siano realizzati in plastica biodegradabile e compostabile”. Tuttavia, le restrizioni previste dall’Europa riguardano sia i prodotti in plastica fossile che in plastiche biodegradabili e compostabili e non demandano ai singoli Stati membri la discrezionalità di valutare l’esistenza (o meno) di alternative (valutazione peraltro già condotta a livello europeo e propedeutica alla redazione della proposta di Direttiva) Pertanto il recepimento nazionale, se approvato nella forma attuale, sarebbe in netto contrasto con la direttiva comunitaria.

Come si stanno muovendo altri paesi europei?

Molti Paesi europei stanno intervenendo per ridurre i rifiuti alla fonte, sostituendo il monouso in plastica con alternative riutilizzabili.

La Francia, ad esempio, punta ad eliminare tutti gli imballaggi in plastica monouso presenti sul mercato nazionale entro il 2040. Un obiettivo da conseguire in maniera progressiva con la fissazione (per decreto) di obiettivi vincolanti di riduzione, riutilizzo e riciclo. Parallelamente, sono stati introdotti target di riutilizzo complessivi per tutte le tipologie di imballaggi commercializzati nel paese pari al 5% entro il 2023 ed al 10% al 2027. Dal 1° gennaio 2020 è proibito mettere a disposizione tazze, bicchieri e piatti usa e getta in plastica per il consumo sul posto negli esercizi di somministrazione e, a partire dal 1° gennaio 2023, tale divieto sarà esteso a tutte le opzioni monouso (non solo a quelle in plastica), con l’obbligo di utilizzo di opzioni riutilizzabili. Misure specifiche vengono previste anche per le bottiglie in PET per liquidi alimentari. Dal 1° gennaio 2022 gli edifici pubblici saranno tenuti ad avere almeno una fonte di acqua potabile collegata alla rete accessibile al pubblico e anche le attività di ristorazione e i locali di somministrazione di bevande daranno ai consumatori la possibilità di richiedere acqua potabile gratuita. Tali misure sono funzionali al raggiungimento dell’obiettivo di riduzione del numero di bottiglie in plastica monouso per bevande immesse sul mercato francese del 50% entro il 2030. L’Irlanda punta a rendere tutti gli imballaggi riutilizzabili o riciclabili entro il 2030, con interventi mirati anche sull’overpackaging, sulla progettazione e riduzione della loro complessità, oltre all’introduzione di un sistema di deposito su cauzione (DRS) per i contenitori per le bevande. La strategia irlandese estende il divieto di vendita ad alcuni oggetti non vietati dalla SUP: salviette umidificate, articoli da bagno in plastica monouso per hotel, articoli in plastica monouso utilizzati per il confezionamento di zucchero e condimenti (es. olio, salse). La Germania invece sta lavorando su misure volte ad introdurre l’obbligo (da gennaio 2023) di mettere a disposizione dei clienti contenitori riutilizzabili per il consumo di alimenti e bevande sia sul posto che da asporto in caffetterie e ristoranti. L’Olanda vuole ridurre ulteriormente il consumo di prodotti monouso in plastica previsto dalla SUP introducendo divieti di fornire gratuitamente prodotti usa e getta al cliente e obbligando a mettere a disposizione alternative riutilizzabili. L’Austria vuole introdurre il vuoto a rendere per le bottiglie, con percentuali vincolanti per l’uso di contenitori riutilizzabili, introducendo anche il deposito su cauzione e la plastic tax.

Raccomandazioni per l’Italia

Il recepimento della SUP e il PNRR sono delle concrete possibilità per ridisegnare un futuro sostenibile per il nostro Paese. Il parlamento e il governo Draghi possono scegliere di replicare quanto di buono già messo in atto da altri Paesi e adottare misure che favoriscano la diffusione dei modelli basati su prevenzione riuso, riducendo al minimo il monouso e i rifiuti che ne derivano. Le nostre raccomandazioni, dettagliate nel capitolo 8 del rapporto, mirano ad aumentare il “livello di ambizione” del nostro Paese in fase di recepimento della Direttiva SUP e, più in generale, intendono fornire un contributo ai fini della definizione delle politiche nazionali volte a ridurre la produzione di rifiuti e il consumo di risorse naturali legato alla diffusione dei prodotti monouso. Le misure proposte spaziano dall’introduzione di target vincolanti di riduzione e riuso per gli imballaggi e gli articoli monouso, alla definizione di incentivi economici volti a promuovere la nascita e il consolidamento di nuovi modelli di business basati sull’utilizzo di prodotti riutilizzabili e della vendita di prodotti sfusi, fino all’introduzione di misure di carattere regolamentare che garantiscano il progressivo abbandono dell’usa e getta nella somministrazione di alimenti e bevande sia per il consumo sul posto che da asporto.

Certo è che se l’impostazione data finora dal parlamento italiano al recepimento della SUP dovesse essere confermata, sembra difficile che tale recepimento sia accettabile dagli organi comunitari competenti. Greenpeace è pronta a fare la sua parte negli interessi del mare, del Pianeta e della collettività.

Leggi rapporto completo

Piano Nazionale di Gestione dei Rifiuti: occasione per un’accelerazione virtuosa o l’ennesimo errore tecnocratico?

La nota congiunta di Legambiente, Greenpeace, WWF, Zero Waste Italy, Kyoto Club

In merito alla recente adozione del Dlgs 116, recepimento della nuova Direttiva Quadro (Direttiva 2018/851) e della nuova Direttiva Imballaggi (Direttiva 2018/852) incluse nel Pacchetto UE sulla Economia Circolare, alla cui “visione” ambiziosa le strategie nazionali dovranno  da ora in poi essere allineate, le Associazioni sottoscritte tengono a precisare modi e condizioni per la applicazione di alcune previsioni fondamentali

Ci riferiamo, in particolare, alla previsione di un “Programma  Nazionale per la Gestione dei Rifiuti” (PNGR di seguito), strumento non previsto obbligatoriamente dalla Direttiva, ed inserito invece nel Decreto di recepimento.

La lettura dell’articolo 28 della Direttiva, al cui dettaglio rimandiamo, recita infatti:

1.      Gli Stati membri provvedono affinché le rispettive autorità competenti predispongano, (…) uno o più piani di gestione dei rifiuti. Tali piani coprono, singolarmente o in combinazione tra loro, l’intero territorio geografico dello Stato membro interessato.

La fattispecie prevista dalla Direttiva è quella dei “Piani di settore”, sinora delegati alle Regioni, strumento attraverso il quale le Regioni hanno sinora governato e programmato le attività, individuando gli scenari e, nella loro generalità, assicurando l’evoluzione del sistema verso le attuali situazioni; situazioni che   descrivono una Italia che da Paese arretrato, ha scalato le classifiche europee e mondiali, diventando uno dei Paesi con prestazioni più avanzate in termini di raccolta differenziata, riciclo, e minimizzazione del RUR.

Tutto questo ci racconta una prima verità, da cui non si può prescindere nel valutare il ruolo del redigendo “Programma Nazionale”: molte Regioni, ed i territori che le stesse rappresentano, hanno consentito, nella media, di perseguire scenari ambiziosi, smentendo a più riprese lo scetticismo di molti operatori di settore, superando continuamente la narrazione di un Paese arretrato  e non in grado di raccogliere le sfide della agenda sulla Economia Circolare[1].

Insomma, qualcosa di profondamente diverso dalle letture che vediamo spesso generate, con una percezione sciatta e riduttiva, da parte diversi operatori: letture tutte finalizzate alla definizione delle “necessità impiantistiche” in particolare per la gestione del RUR  (e con tutti gli errori metodologici e concettuali che avremo modo di specificare più oltre)

In realtà, la lettura di dettaglio dello stesso articolo 28 della Direttiva Quadro, dà ulteriori indicazioni, che non possono essere trascurate: l’articolo descrive infatti, nei suoi diversi commi ed alinea, Piani che devono essere costituiti da una elaborazione armonica in merito a misure di prevenzione e riduzione, raccolta, ed impiantistica. C’è anche l’elemento della impiantistica, ma non è l’unico – né, sottolineiamo con forza, il principale, tanto meno in uno scenario dettato dalla agenda sulla “economia circolare”, in cui il “software di sistema” (nuovi modelli di attività, riprogettazione dei materiali, organizzazione dei circuiti) è più importante del cosiddetto ”hardware” (sistema impiantistico, ed in particolare quello per trattamento e smaltimento del RUR)

Questo dà la cifra dei “Piani” come individuati dalla Direttiva Quadro: strumenti articolati, il contenitore in cui i territori definiscono gli orizzonti delle loro azioni ed ambizioni, in un quadro coerente di azioni virtuose su

·       Riduzione

·       Raccolta differenziata

·       Riciclo e compostaggio

·       Pretrattamento del RUR

·       Smaltimento

Il PNGR può dunque essere occasione per ridefinire strategie nazionali, individuando le necessarie azioni di riduzione e minimizzazione del RUR, e le misure organizzative ed economiche in merito, ben prima ed al di là della definizione delle capacità impiantistiche, ed in particolare per la gestione del RUR. Il PNGR, in altri termini, non va usato per assumere decisioni monocratiche in sede centrale, senza confronto con i territori, e con le Regioni che li rappresentano in sede politico-istituzionale e che possono assumere (come spesso sta avvenendo!) obiettivi più ambiziosi di quelli minimi definiti nelle Direttive, perseguendoli nella operatività locale e nella definizione degli strumenti di supporto.

Un approccio del PNGR tutto impostato sulla definizione delle capacità (e delle tipologie!) impiantistiche, in particolare per il RUR, non farebbe che riproporre lo schema logico dello Sblocca Italia: il livello centrale decide per il tipo di tecnologie e le relative capacità, alle Regioni rimane solo la localizzazione. Uno schema già abbondantemente sconfessato dalla sostanziale sterilità delle misure a suo tempo ivi previste; nonché – ed in modo eloquente! –  dalle sentenze della Corte Europea di Giustizia e del TAR del Lazio.

Tale approccio è stato cassato in ambito legale per un elemento fondamentale: la mancanza della VAS; elemento critico che avevamo messo in risalto (al pari di molte Regioni) sin dall’inizio. E’ appena il caso di rilevare che l’assenza della VAS ha evitato quella analisi delle alternative, che avrebbe sconfessato di fatto l’approccio distorto adottato dall’allora Ministro pro-tempore, ossia pretrattamento = incenerimento.

In effetti, come segnalammo subito (assieme a diverse Regioni), lo Sblocca Italia, che dichiarava di volere superare le criticità determinate dalla incompleta applicazione della direttiva discariche, faceva un salto logico del tutto irragionevole, trasformando l’obbligo di pretrattamento, definito dalla Direttiva stessa e che ha innescato le procedure di infrazione contro l’Italia (una su tutte, il caso Malagrotta), in obbligo di incenerimento. Invece, la Direttiva 99/31 sulle discariche  prevede una varietà di possibili approcci al pretrattamento; approcci ognuno dotato dai suoi pro, dai suoi contro, e dalle relative condizioni di adozione – proprio quello che una VAS dovrebbe esaminare in modo completo ed equilibrato, cercando, in particolare, la coerenza con gli obiettivi ambiziosi dettati dalla agenda UE, e quelli ancora più ambiziosi che molti territori hanno dichiarato e stanno dimostrando di volere perseguire.

In particolare, riteniamo fondamentale sottolineare un approccio riduttivo che vediamo usare con insistente frequenza, e che include diversi errori metodologici e concettuali: diffidiamo, una volta per tutte, dall’usare la formula, inopinatamente proposta[2] e purtroppo ripetuta più volte senza i necessari approfondimenti e riflessioni in merito, per il calcolo della “necessità di incenerimento”: la formula  “100-65-10[3]”, fallace per diversi motivi, che rendono irricevibile, ed ai limiti del ridicolo, il ragionamento ogni volta che viene riproposto:

–          Anzitutto, perché è appena il caso di sottolineare che il 65% di riciclo netto è l’obiettivo minimo, non massimo, previsto dalle Direttive UE; e fino al 2035 c’è abbondanza di tempo per perseguire scenari più ambiziosi (peraltro, già conseguiti in territori, anche estesi) in confronto con i percorsi virtuosi che le Regioni e le altre Amministrazioni Locali possono/vogliono definire

–          Ma soprattutto, ed ancora una volta, va ribadito che l’incenerimento non è l’unica opzione di trattamento del RUR; né, in riferimento alle finalità di quel calcolo, l’unica opzione che consenta di ridurne l’avvio a discarica[4]!

Insomma, l’approccio metodologico a tale calcolo è profondamente riduttivo e distorto, e non reggerebbe alla prova dei fatti, su cui siamo pronti a sfidare, con evidenze, informazioni, e capacità di visione, chiunque se ne faccia latore, a livello istituzionale o di portatori di interesse.  

Ma vale la pena di rammentare, a chi cerca di sfruttare l’occasione del PNGR per ravvivare una agenda dell’incenerimento, che questa dovrebbe invece ormai volgere allo spegnimento progressivo, come hanno già dichiarato molti dei Paesi Nordici spesso citati da chi in modo pasticciato e confuso parla di coerenza tra incenerimento e scenari avanzati di recupero materia (e riduzione dei rifiuti!)

Basta appena citare (ma ulteriori evidenze e dettagli saranno disponibili per chi riterrà di approfondire):

–          Le indicazioni venute da Tema Nord (rete dei Ministeri dell’Ambiente dei Paesi Scandinavi) sulla necessità di definire piani di decommissioning, allo scopo di superare le contraddizioni con gli scenari incrementali del recupero materia previsti dal Pacchetto Economia Circolare[5]

–          Il recente annuncio del governo danese  relativo alla definizione di un piano di spegnimento di alcuni degli inceneritori esistenti[6], dal momento che la “Carbon intensity” della produzione energetica da incenerimento è ormai marcatamente superiore (causa la presenza di materiali fossili nel rifiuto residuo, come plastica e tessili artificiali) a quella della produzione energetica generale, e nel contesto di una agenda sulla decarbonizzazione, l’incenerimento è diventato un “outlayer”, qualcosa che sta fuori dal percorso previsto. Il problema è stato sollevato recentemente anche in Scozia[7].

–          La Comunicazione della EC del Gennaio 2017[8] sul “ruolo del waste-to-energy nella economia circolare” richiama ampiamente tutti i temi elencati, includendo nel suo complesso un appello a disinvestire dall’incenerimento, massimamente nei Paesi dove la capacità di incenerimento è già presente e sviluppata (ed è il caso dell’Italia). Coerentemente, le ultime disposizioni adottate in merito alla “Taxonomy” europea della finanza sostenibile, alla politica di finanziamento della BEI, ai meccanismi di erogazione delle sovvenzioni per l’energia rinnovabile, sono tutte intese ad escludere meccanismi di finanziamento all’incenerimento

Infine, ci corre l’obbligo di sottolineare un concetto, su cui la confusa riproposizione della formula “100-65-10” pare essere cieca: in discarica, mandiamo tonnellate, non percentuali; dunque, chi vuole davvero minimizzare il ricorso alla discarica, deve evitare di legare il territorio a capacità di incenerimento che, ingessando il sistema, impediscono di lavorare sulla minimizzazione del RUR, ossia (appunto) quei tonnellaggi a cui le percentuali si applicano. I territori che più di tutti sono riusciti a minimizzare i contributi specifici alla discarica (i kg/ab di RUR, che poi diventano le tonnellate smaltite) sono, guarda caso, quelli liberi dall’ingessamento causato dalla presenza di inceneritori che necessitano di tonnellaggi onde garantire il recupero degli investimenti[9].

Ormai lo scenario operativo abbonda di evidenze di questo tipo, in Italia ed a livello UE: e chi si occupa di programmazione non può più permettersi di ignorarle. 


[1] Al contempo, questa realtà descrive un Paese in grado di perseguire obiettivi sempre più ambiziosi, e deve agire da stimolo per quei territori e Regioni – non solo al Sud! – che ancor attestano una marcata arretratezza rispetto alla media nazionale ed agli obiettivi di legge. La presenza, anche nel contesto centro-meridionale, di Regioni con livelli avanzatissimi di raccolta differenziata e riciclo (es. Sardegna), ma anche  di vaste aree o singoli distretti nelle Regioni più arretrate, dimostra la percorribilità di scenari avanzati, non lascia scuse e deve stimolare una veloce evoluzione della situazione media regionale a qualunque latitudine

[2] Cfr. ad esempio: https://24plus.ilsole24ore.com/art/industria-riciclo-senza-impianti-22-milioni-tonnellate-rifiuti-ADnY5Bx e https://cesisp.unimib.it/wp-content/uploads/sites/42/2020/09/cesisp-instant-paper-circular-capacity-waste-08-2020.pdf. I contributi ivi citati o sviluppati, sembrano proprio volere dettare al Ministero una agenda distorta, basata sull’erroneo calcolo 100-65-10, per la redazione del PNGR, impostando in particolare su tale approccio un calcolo della “necessità di capacità aggiuntiva di incenerimento”. Calcolo fallace per quanto qui mostrato.

[3] La formula, nelle intenzioni di chi in modo pigro la propone, assume il conseguimento del 65% di riciclo netto (ossia, già sottraendo gli scarti dei processi di riciclo e compostaggio) come previsto dalla Direttiva-Quadro, e il 10% di “landfill cap” come previsto dalla nuova Direttiva Discariche, derivando – impropriamente, per quanto evidenziato in questo documento – la necessità di un 25% di incenerimento

[4] In merito, si può consultare ad esempio il documento “Building a Brige Strategy for Residual Waste” di Zero Waste Europe, peraltro redatto prendendo spunto da esempi presenti anche e soprattutto nel contesto nazionale: https://zerowasteeurope.eu/2020/06/building-a-bridge-strategy-for-residual-waste/

[5] https://www.compostnetwork.info/wordpress/wp-content/uploads/EUNOMIA-study-on-Nordic-Nations.pdf

[6] https://stateofgreen.com/en/partners/state-of-green/news/new-political-agreement-to-ensure-a-green-danish-waste-sector-by-2030/, l’articolo rimarca anche che la Danimarca, come da noi sempre segnalato, ha il poco commendevole primato di produzione pro-capite di RU in Europa, ben più di Paesi a vocazione turistica!

[7] https://www.zerowastescotland.org.uk/sites/default/files/ZWS%20%282020%29%20CC%20impacts%20of%20incineration%20SUMMARY%20REPORT%20FINAL.pdf. Vale la pena di sottolineare che “Zero Waste Scotland” è una organizzazione dello Scottish Executive, il Governo scozzese, delegata alla implementazione della Circular Economy.

[8] https://ec.europa.eu/environment/waste/waste-to-energy.pdf

[9] Cfr. Il documento https://zerowasteeurope.eu/wp-content/uploads/2020/03/zero_waste_europe_policybriefing_10landfill_en.pdf che include una analisi approfondita del tema, con relativi casi di studio. 

End of Waste. Associazioni ambientaliste: ‘Servono interventi urgenti’

Le associazioni ambientaliste Greenpeace, Legambiente e WWF Italia esprimono la loro preoccupazione per le difficoltà e le situazioni di crisi di numerose attività di riciclo dei rifiuti generate da carenze normative in materia di autorizzazione per la cessazione della qualifica di rifiuto dopo adeguato trattamento (End of Waste).

Il riciclo dei rifiuti è un’attività centrale dell’economia circolare che consente di ridurre gli impatti del prelievo di risorse naturali, dei consumi di energia e di emissioni di gas serra, nonché di diminuire la quantità dei rifiuti da smaltire in discarica o mediante incenerimento.

Riteniamo – dichiarano le associazioni – sia necessario intervenire con urgenza attraverso l’introduzione di una nuova norma che consenta alle Regioni di autorizzare il riciclo “caso per caso”, nel pieno rispetto dei criteri dettati dal paragrafo 2, dell’art. 6 della direttiva 98/2008/UE, per le attività non ancora regolate da decreti nazionali o da regolamenti europei, sostenendo così la continua eco-innovazione, sbloccando il recupero di importanti quantità di rifiuti in condizioni di sicurezza ambientale e permettendo all’Italia di raggiungere i nuovi target europei in materia.

Riteniamo, altresì, che tali autorizzazioni regionali debbano confluire in un apposito Registro nazionale presso il Ministero dell’Ambiente in modo da poter essere sottoposte a specifici controlli al fine di garantire il rispetto delle condizioni  e dei criteri citati nonché di assicurare un’applicazione uniforme nell’intero territorio nazionale.

Occorre, infine, accelerare l’emanazione dei decreti nazionali di cessazione della qualifica di rifiuto (End of Waste), rafforzare le strutture ministeriali dedicate alla predisposizione di tali decreti e semplificare i procedimenti in modo da ridurre la durata degli stessi, sino ad oggi eccessiva, senza, tuttavia, diminuire le garanzie di protezione per l’ambiente e per la salute.