Ogni anno, in Italia, milioni di smartphone, computer, elettrodomestici e dispositivi intelligenti vengono acquistati. Pochi si chiedono che fine facciano quelli che non usiamo più. La situazione è preoccupante: solo pochi vengono riciclati nel modo giusto, mentre gli altri restano dimenticati nei cassetti oppure dispersi nell’ambiente.
Il nostro Paese vive una situazione contraddittoria tra ambiente e tecnologia: la voglia di novità cresce, ma diminuisce la capacità di gestire i RAEE (Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Secondo il Global E-waste Monitor e i dati del Centro di Coordinamento RAEE, ogni italiano produce più di 20 kg di rifiuti elettronici all’anno, ma ne vengono raccolti solo 6,1 kg. In altre parole, più del 60% dei rifiuti elettronici sfugge ai canali ufficiali, alimentando un mercato sommerso che danneggia l’ambiente e l’economia. Siamo lontani dall’obiettivo europeo di 10 kg per persona fissato per il 2025.
Gli esperti dicono che il problema dei RAEE non è solo una questione di strutture o industrie, ma soprattutto di mentalità. In Italia cambiamo smartphone ogni due anni, ma ne teniamo cinque nei cassetti. Molti non sanno dove buttare i vecchi apparecchi e, anche se i negozi sono obbligati a ritirare i dispositivi gratuitamente (uno contro uno), questa cosa non accade spesso. Nei piccoli paesi i negozi non sono attrezzati per la raccolta e nei grandi negozi il servizio non è pubblicizzato bene. Anche i centri di raccolta comunali, dove si possono portare i RAEE gratis, sono pochi, lontani o difficili da trovare.
Il risultato è che ogni anno migliaia di tonnellate di rifiuti elettronici finiscono nella spazzatura normale o nel mercato illegale. Una parte grande viene portata illegalmente in Africa occidentale e in Asia, in discariche come Agbogbloshie in Ghana o Guiyu in Cina, due dei posti più inquinati del mondo.
Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) dice che i rifiuti elettronici sono una doppia perdita: per l’ambiente, perché contengono sostanze tossiche come piombo, mercurio, cadmio e cromo esavalente, e per l’economia, perché nei dispositivi buttati ci sono materiali preziosi come oro, rame, argento, litio e terre rare, che servono per la transizione energetica. Un solo smartphone ha circa 30 metalli diversi e ogni tonnellata di telefoni cellulari può dare fino a 150 grammi d’oro e 100 kg di rame. Se l’Italia recuperasse anche solo una parte di questi materiali, ridurrebbe le importazioni e creerebbe lavoro nel settore del riciclo tecnologico.
Anche se l’Italia è tra i Paesi europei più bravi a gestire i rifiuti in generale — con il 76,5% dei rifiuti urbani trattato come riciclabile rispetto al 55% europeo —, la filiera dei RAEE è il punto debole. La raccolta è divisa, i trasporti costano troppo e i consorzi (Ecodom, Remedia, Erion, Ecolight) non riescono a offrire lo stesso servizio in tutta Italia. Le regioni del Nord, come Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, superano i 7 kg di raccolta per persona, mentre Sicilia e Calabria restano sotto i 3 kg. Anche il trasporto è un problema: i centri di trattamento non sono distribuiti bene e spesso le lunghe distanze fanno aumentare i costi e l’inquinamento.
Intanto l’Europa punta a fare meglio. Le nuove regole europee sulle batterie e sui rifiuti elettronici, che fanno parte del Piano d’Azione per l’Economia Circolare, obbligano i produttori a recuperare i materiali e a fare dispositivi più facili da riparare. È il principio del right to repair, il diritto alla riparazione: pezzi sostituibili, ricambi disponibili e istruzioni facili da capire per tutti. Dal 2027 i produttori dovranno usare una quantità minima di materiali riciclati e assicurare la tracciabilità delle materie prime. Quindi, non basterà solo riciclare, ma bisognerà produrre oggetti che durano di più, si possono smontare e riutilizzare.
Per l’Italia, questa transizione può diventare un’occasione industriale. Secondo il Politecnico di Milano, i rifiuti elettronici potrebbero diventare una “miniera urbana”, una fonte di materiali per batterie, componenti elettronici e tecnologie per l’energia rinnovabile. Però servono investimenti in ricerca, innovazione e norme di supporto. Oggi solo il 17% delle aziende elettroniche italiane ha programmi per recuperare i materiali e meno del 10% applica principi di economia circolare.
Il Centro di Coordinamento RAEE, con le parole del suo presidente Bruno Rebolini, dice che serve un cambio di passo: più incentivi per le persone, più collaborazione tra Comuni e consorzi e campagne di informazione continue. Ogni dispositivo non raccolto, dice Rebolini, è un pezzo di economia circolare che si perde.
Il futuro dei rifiuti elettronici è una questione collettiva. Le persone devono restituire i dispositivi, le aziende devono rendere le cose semplici, i produttori devono creare prodotti migliori e le istituzioni devono controllare e vigilare. Se non c’è una collaborazione stabile, la corsa all’innovazione rischia di lasciare una montagna di rifiuti nascosti, che mostra che sappiamo costruire, ma non sappiamo chiudere il cerchio.
E mentre i negozi si riempiono di nuovi smartphone, nei cassetti si accumulano quelli vecchi: oggetti silenziosi, spenti, che raccontano quanto velocemente cambiamo, ma anche quanto lentamente impariamo a prenderci cura di ciò che lasciamo indietro.
Fonti:
- Centro di Coordinamento RAEE, “Rapporto annuale 2024”
- Global E-waste Monitor 2024, United Nations Institute for Training and Research (UNITAR)
- ISPRA – Rapporto Rifiuti Urbani 2024
- Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) – Dossier RAEE 2025
- Erion WEEE – Analisi 2024 “La miniera urbana italiana”
- European Commission, “Directive 2012/19/EU on Waste Electrical and Electronic Equipment (WEEE)”
- Politecnico di Milano – Energy & Strategy Group, Rapporto “E-waste e Circular Tech 2025”