Il riciclo della plastica rischia il collasso

L’industria italiana della trasformazione della plastica è alle prese con gli effetti che il coronavirus sta provocando sul mercato delle commodity. Solo in Italia il settore della trasformazione della plastica vale oltre 30 miliardi di euro e occupa 110mila persone

L’industria italiana della trasformazione della plastica è alle prese con gli effetti che il coronavirus sta provocando sul mercato delle commodity. «Se la situazione dovesse persistere e non verranno prese misure per porre rimedio, il riciclo della plastica cesserà di essere redditizio, ostacolando il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Ue e mettendo a rischio la transizione verso l’economia circolare» ha detto Ton Emans, presidente di Plastics recyclers Europe (l’associazione che riunisce le industrie che riciclano plastica in Europa).

I problemi più gravi per il comparto sono la carenza di domanda, dovuta al lockdown, e i bassi prezzi delle materie plastiche vergini, legati all’andamento del petrolio da cui derivano. «La situazione è grave, e se inizialmente uno può pensare che il crollo del prezzo del petrolio può essere un’ottima notizia, si sbaglia di grosso» spiega a La Stampa Patty L’Abbate, componente M5s della commissione Ambiente a Palazzo Madama. «In realtà, a livello di mercato, il basso prezzo del greggio significa che è più facilmente accessibile, sopratutto quando si parla di cracking per dei prodotti che fanno parte del mondo delle plastiche». 


Il blocco della filiera di recupero e riciclo, inoltre, nel nostro Paese sta producendo sia danni ambientali sia danni economici. Secondo i dati forniti da Unionplast, l’associazione italiana dei trasformatori di materie plastiche, ed EuPC – European Plastic Converters, l’associazione delle imprese auropee, solo in Italia il settore della trasformazione della plastica vale oltre 30 miliardi di euro e occupa 110mila persone. Mentre a livello europeo, il settore impiega, nelle fasi di prima trasformazione e di seconda lavorazione, più di 1.600.000 persone in 50.000 piccole e medie aziende. La produzione totale europea è pari a 50 milioni di tonnellate di manufatti in plastica, il fatturato globale europeo del comparto è di circa 350 miliardi di euro/anno.


«In Italia la filiera del riciclato è fertile e produttiva, quindi le criticità sono emerse anche sul versante dei costi della plastica riciclata stessa» continua L’Abbate. «Quello che noi come governo stiamo cercando di fare è incentivare questo secondo mercato, in linea con le direttive di economia circolare europea che entro luglio devono essere recepite. Una delle misure da attuare vede l’inserimento di percentuali di materia riciclate nei prodotti in plastica, in modo tale da impedire che vengano prodotti solo ed esclusivamente con materia vergine».


Il rischio che si corre è anche quello di sprecare quanto fatto in questi anni in termini di economia circolare. In fatto di riciclo il nostro Paese è tra le eccellenze mondiali, grazie alla crescita delle quantità di rifiuti trattate e all’aumento delle imprese che si occupano di riciclo. «Siamo primi, tra le cinque principali economie europee, nella classifica per indice di circolarità, il valore attribuito secondo il grado di uso efficiente delle risorse in cinque categorie: produzione, consumo, gestione rifiuti, mercato delle materie prime seconde, investimenti e occupazione», si legge nel Rapporto nazionale sull’economia circolare in Italia 2020, realizzato dal Circular economy network (Cen), in collaborazione con Enea, e presentato in diretta streaming lo scorso 19 marzo.


C’è poi la questione dell’aumento, causato dalle norme sanitarie imposte durante l’emergenza sanitaria, delle plastiche monouso – presenti sopratutto nella grande distribuzione e nei dispositivi di protezione individuale – che vengono successivamente smaltite nell’inceneritori.
Per capirci: secondo una stima del Politecnico di Torino, per la sola regione Piemonte nella fase di riapertura di tutte le attività sono necessarie circa 76 milioni di mascherine chirurgiche al mese e circa 8 milioni di quelle definite di comunità, non chirurgiche. «Tutto il materiale uso e getta che sta venendo fuori da questo lockdown non può essere incenerito e bruciato. Perché significa andare contro a quello che il mondo accademico e scientifico ci dice da tempo, cioè che la materia deve essere utilizzata il più possibile» aggiunge L’Abbate.


Quanto allo sblocco del mercato. Lo sop ai confini, scattati con l’emergenza perché anche le aziende estere sono alle prese con l’aumento dei rifiuti nazionali, ha congestionato i pochi impianti nazionali. Oltre al fatto che, visti gli effetti ambientali, non si potrà continuare a bruciare rifiuti per sempre, il settore della plastica riciclata rischia di affievolirsi sempre più anche a causa del collo di bottiglia che i rifiuti ospedalieri e civili stanno provocando nell’impiantistica italiana. Si attendono, quindi, decisioni imminenti da parte delle sfere politiche.

Fonte: La Stampa

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