Riciclo, incentivi (indispensabili) in tre possibili mosse

La carenza di impianti e infrastrutture per la gestione dei rifiuti è un grave ostacolo alla realizzazione di un’economia che sia davvero “circolare” e che risponda agli obiettivi posti dall’Unione europea. La loro realizzazione non è tuttavia né semplice né immediata e, dunque, è importante trovare soluzioni intermedie a supporto. Una di queste è la presenza di incentivi e strumenti economici in grado rendere la gestione del waste coerente con quella che viene definita gerarchia dei rifiuti, ovvero la “classifica” delle migliori pratiche – dalla più alla meno sostenibile – e che vede in ultima posizione lo smaltimento in discarica.

Evitando il solito meccanismo fatto da imposizione di standard, divieti e sanzioni in caso di mancato rispetto, gli incentivi sono in grado di guidare meglio gli operatori verso i comportamenti che accrescono il benessere sociale, disincentivando quelli che causano impatti negativi per l’ambiente.

Una logica in linea con l’impostazione indicata dal Recovery Fund che chiede agli Stati europei di affiancare al sostegno economico offerto dal bilancio dell’Unione le opportune riforme.

Per esempio, la tassa sui rifiuti urbani TARI, gli schemi di responsabilità estesa del produttore (o EPR), la tassazione ambientale e gli incentivi al recupero energetico sono alcuni fra gli strumenti economici oggi attivi. A questi se ne può aggiungere uno dedicato al sostegno al riciclaggio che – nella già citata gerarchia – è modalità di gestione preferibile sia al recupero energetico sia allo smaltimento. Ad oggi, non esiste uno strumento analogo visto che alla voce “riciclaggio” non corrisponde alcun tipo di incentivo (l’immagine sottostante illustra perfettamente la situazione).

Un vuoto da colmare considerando almeno tre fattori. Primo, la stessa Direttiva 2018/851 (Allegato IV), indica la via degli strumenti economici per sostenere la piena attuazione della gerarchia dei rifiuti. Secondo, le performance italiane nel riciclaggio sia per i rifiuti urbani (47%) sia per gli speciali (68%) sono un buon punto di partenza. E terzo, l’urgenza di superare l’attuale deficit impiantistico nel riciclo e di ridurre la dipendenza dall’export, spingono in questa direzione.

Una risposta può essere trovata nell’“incoraggiare l’applicazione più ampia di strumenti economici ben progettati”: nuovi strumenti di mercato che mutuino le esperienze di successo dei mercati energetici, come nel caso dei CIC o dei Certificati Bianchi (anche detti Titoli di Efficienza Energetica-TEE). Ma facciamo un passo alla volta.

In precedenza, si è detto come sarebbe preferibile evitare il cosiddetto meccanismo di command and control (fatto di standard stabiliti, divieti e sanzioni), per orientarsi invece su politiche basate su incentivi e strumenti di mercato, come tasse, sussidi. Esse fanno leva su logiche di convenienza orientate ad assicurare che un certo obiettivo ambientale sia conseguito con il minore costo, ovvero distribuendo gli sforzi in misura maggiore sugli operatori, i settori economici e le iniziative in grado di assicurare l’obiettivo al costo più basso.

Tra gli strumenti vi sono anche i permessi negoziabili, secondo i quali il regolatore pubblico è chiamato a definire l’obiettivo ambientale, i soggetti obbligati e ad organizzare un mercato regolamentato nel quale i permessi possono essere scambiati. Come accade per i permessi di emissione di CO2 all’interno dell’European Union Emissions Trading System, il primo e grande mercato al mondo di questo genere.  In questo spazio, ogni permesso negoziabile autorizza il possessore ad emettere una tonnellata di anidride carbonica equivalente e di scambiarla. I vantaggi? La trasferibilità dei permessi negoziabili fa sì che le imprese in grado di diminuire le emissioni a costi contenuti possano valorizzare questa loro peculiarità conseguendo titoli che attestano il contenimento delle emissioni e che possono essere ceduti sul mercato dedicato a imprese per le quali tale sforzo avrebbe costi superiori al valore di mercato del permesso negoziabile.

Ma questo non è l’unico sistema. Per esempio, in quelli definiti baseline-and-credit, ogni impresa è autorizzata ad emettere un certo ammontare di emissioni, relative ad un livello base. Se l’azienda è in grado di rimanere al di sotto di tale quota, ottiene dei crediti che può conservare per l’anno successivo o cedere sul mercato alle imprese che di converso si trovano al di sopra del proprio livello base. I crediti ottenuti maturano tipicamente in esito a interventi di riduzione delle emissioni e i Certificati Bianchi appartengono a questo schema. In forza a tali strumenti economici e di mercato si incentiva il cambiamento dei comportamenti, senza divieti; si innesca un aggiustamento graduale ma progressivo verso gli obiettivi ambientali, si promuove l’innovazione e si minimizzano i costi della “transizione”.

Il caso del biometano in Italia può aiutare a capire meglio. Con la Legge n.81/2006 è stato recepito l’obbligo per i fornitori di benzina e gasolio (i “Soggetti obbligati”) di distribuire anche una quota di biocarburanti. L’intento dichiarato è quello di contribuire allo sviluppo di tale filiera di produzione, accrescerne l’impiego e limitare l’immissione in atmosfera di anidride carbonica del settore dei trasporti. Nel 2020 la quota d’obbligo è stata del 9%. Al fine di monitorare l’assolvimento dell’obbligo, il GSE rilascia dei Certificati di Immissione al Consumo (CIC) ai soggetti obbligati che distribuiscono biocarburanti sostenibili.

E il meccanismo dei CIC è uno strumento economico appartenente alla categoria dei permessi negoziabili in quanto distingue l’assolvimento dell’obbligo di immissione in consumo del materiale dalla miscelazione del biocarburante: all’obbligo di produzione e distribuzione di biocarburante si sostituisce l’obbligo di detenere una quantità corrispondente di certificati. Ciò può essere assolto direttamente oppure in modo indiretto acquistando una corrispondente quantità di CIC sul mercato regolamentato.

Dai rifiuti organici si ricava il biometano avanzato: è su questa tipologia di biometano che si concentra l’apporto della componente rifiuti alla produzione di biocarburanti per il settore dei trasporti. Come funziona? Con il D.M. 2 marzo 2018 si stabilisce la possibilità per i produttori di chiedere al GSE, a titolo di incentivo, una remunerazione pari a 375 euro per ciascun CIC di propria spettanza, afferente ai biocarburanti avanzati (compreso il biometano) prodotti e destinati ai trasporti. Tale incentivazione ha una durata massima di 10 anni. Una volta chiusa questa finestra, si avrà diritto unicamente al riconoscimento del valore di mercato del CIC, così come avviene per il caso del biometano non avanzato.

A ciò si aggiunge, in alternativa alla collocazione autonoma sul mercato nella fase di vendita, l’opzione del ritiro da parte del GSE del biometano avanzato prodotto[1]. Per quanto riguarda i biocarburanti avanzati diversi dal biometano,risultano anch’essi producibili dalla componente rifiuti con un meccanismo di incentivazione speculare a quello del biometano avanzato, eccezione fatta per la fase di vendita dove non si contempla l’opzione di un ritiro dedicato da parte del GSE.

In questo senso il meccanismo di incentivazione alla produzione di biometano avanzato potrebbe essere esteso alle filiere del riciclo dei rifiuti di imballaggio[2], sottoposte al pari dei biocarburanti ad obblighi specifici di derivazione comunitaria, introducendo dei “Certificati del Riciclo” (CdR), titoli che attestano il riciclo di una tonnellata di rifiuto di imballaggio di una certa qualità e materiale. Questi ultimi, liberamente negoziabili in un mercato regolamentato, avrebbero prezzi che si muoverebbero in contro tendenza rispetto a quelli delle Materie Prime, offrendo all’industria del riciclo italiana quella stabilità di prospettive di ricavo necessaria all’avvio degli impianti.

Lo schema di riferimento dei Certificati del Riciclo presenta chiare analogie rispetto al caso dei CIC: vi sono obblighi specifici di riciclaggio, di derivazione comunitaria, quindi recepiti nell’ordinamento nazionale, declinati per flusso di imballaggio (carta, plastica, vetro, eccetera) e scadenzati nel tempo (2025, 2030, 2035). I presupposti ci sono tutti:

  • Obiettivi di riciclaggio per singolo flusso di materiale da imballaggio.
  • Obblighi in base all’immesso al consumo (Registro nazionale dei produttori).
  • Possibilità di assolvere agli obblighi in forma individuale o associata.
  • Compresenza di mercato e diversi schemi di compliance.

Lo strumento dei CdR potrebbe essere disciplinato da un attore istituzionale, quale ad esempio il GSE, dando la possibilità di optare per la modalità di assolvimento ritenuta più efficiente: in modo diretto da parte del soggetto obbligato, attraverso la possibilità di consorziarsi in uno schema di compliance o con l’acquisto sul mercato regolamentato dei CdR, per comprovare l’assolvimento dell’obbligo di riciclo.

Il soggetto percettore del CdR coinciderebbe dunque con il soggetto che realizza la condizione di trasformazione da rifiuto a MPS, ovvero il soggetto che determina l’End of Waste ai sensi dell’Art.184-ter del D.Lgs. 152/2006 in ciascuna filiera.

In analogia con il caso dei CIC sul biometano, il ricavato dalla vendita dei CdR permetterebbe ai riciclatori di sostenere l’equilibrio economico, anche quando i prezzi delle MPS sono non remunerativi.

Per quanto concerne, invece, i flussi di rifiuto non coperti da obblighi specifici di responsabilità estesa del produttore, come ad esempio i giocattoli o le plastiche non da imballaggio, sarebbe opportuno valutare un’estensione del meccanismo dei Certificati Bianchi.

Se è vero, infatti, che questi titoli negoziabili comprovano l’efficienza energetica, sarebbe auspicabile estenderne l’ambito di applicazione a dimostrare l’efficienza energetica ed ambientale che origina dall’impiego di MPS, in sostituzione delle materie prime vergini, come del resto documentato in numerosi studi di Life Cycle Assessment (LCA).

Ulteriori elementi di novità potrebbero arrivare anche dall’“European Union Emissions Trading Scheme” (EU ETS).

Riconoscendo che le emissioni di gas climalteranti delle MPS sono inferiori questo potrebbe renderle più appetibili per i settori industriali: il loro utilizzo va infatti a ridurre i costi diretti (quote) e indiretti (trasferimento del costo della CO2 nei prezzi dell’energia pagati dagli operatori industriali) per conformarsi agli obblighi di legge.

Una eventualità da tenere in considerazione alla luce del fatto che il sistema EU ETS sta per entrare (dal 1° gennaio 2021) nella fase 4, dove i requisiti ambientali e i meccanismi regolatori del sistema diventeranno decisamente più stringenti, alla luce dei nuovi e più ambiziosi obiettivi climatico-ambientali da traguardare.

In sintesi: per chiudere il cerchio degli strumenti economici necessari al corretto funzionamento della gerarchia dei rifiuti, occorrono chiari incentivi al riciclo. Ad oggi, infatti, il riciclaggio rimane l’unico “livello” della gerarchia dei rifiuti privo di adeguato sostegno, nonostante i target di riciclo e l’avvicinarsi delle scadenze temporali entro cui tali obiettivi dovranno essere conseguiti.


[1] Il prezzo è pari a quello medio mensile ponderato sulle quantità, registrato sul mercato a pronti del gas naturale (MPGAS) gestito dal GME, ridotto del 5%.

[2] Ci si sofferma qui sull’applicazione alle filiere dei rifiuti di imballaggio, considerate le peculiarità che le contraddistinguono con una normazione e una gestione più avanzata di quella delle altre frazioni presenti nei rifiuti urbani, a cui si potranno estendere gli strumenti economici proposti in questa sede.

Fonte: Laboratorio REF

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