Anche gli USA siglano un Plastic Pact, ma funzionano?

Cresce il numeri di paesi e regioni che adottano un Plastic Pact per ridurre l’impatto della plastica sull’ambiente. Quali sono le caratteristiche e i risultati ottenuti ad oggi da questi accordi di natura volontaria ?

Anche gli Stati Uniti hanno aderito alla rete internazionale di paesi dove è stato sottoscritto un Plastic Pact PP per ridurre l’inquinamento da plastica che vede tra gli altri la partecipazione di Regno Unito, Francia, Cile, Paesi Bassi, Portogallo, Sud Africa e più recentemente la Polonia.

Anche l’Italia aderendo all’European Plastic Pact si è formalmente impegnata in questo tipo di accordo , anche se non sono arrivate dallo scorso marzo notizie in merito.
L’iniziativa dei Plastic Pact nazionali così come il Global Commitment sono parte dell’impegno della EMAF Ellen MacArthur Foundation per promuovere un’economia circolare della plastica che ha preso il via nel 2016 con la pubblicazione del report The New Plastics Economy e del programma triennale di iniziative correlate. L’annuncio è stato dato il 20 agosto scorso in occasione dell’evento virtuale di GreenBiz Circularity 2020.

L’iniziativa degli USA che vede più di 60 firmatari tra cui aziende, agenzie governative, ONG, università, organizzazioni professionali e società di investimento sarà coordinata da The Recycling Partnership TRP, con il sostegno del World Wildlife Fund (WWF).

Sulla falsariga degli impegni presi dai partecipanti ai PP già operativi i firmatari si adopereranno entro il 2025 per :

  • Definire un elenco di imballaggi in plastica considerati come problematici o non necessari entro il 2021, e adottare misure idonee ad una loro eliminazione entro il 2025;
  • Assicurare che tutti gli imballaggi in plastica siano riutilizzabili, riciclabili o compostabili ;
  • Intraprendere azioni ambiziose per riciclare o compostare efficacemente il 50% degli imballaggi in plastica;
  • Raggiungere una percentuale media del 30% di contenuto riciclato o di contenuto bio-based prodotto responsabilmente.

I progressi compiuti dagli aderenti al Patto rispetto a questi obiettivi verranno resi noti su base annuale. Sarà il WWF a monitorarli attraverso un’applicazione denominata ReSource: Plastic Footprint Tracker, che attraverso una metodologia standard misurerà il consumo di plastica dei firmatari.

Gli aderenti al Plastic Pact rappresentano un po’ tutta la filiera della plastica degli USA e includono importanti stakeholder del settori dei rifiuti e del riciclo come Solid Waste Association of North America (SWANA), Institute of Scrap Recycling Industries (ISRI), National Waste Recycling Association (NWRA), Eureka Recycling, Balcones Resources, EcoCycle , APR Association of Plastic Recyclers . Tra le aziende figurano multinazionali come  Colgate-Palmolive Company, Danone North America,  Coca-Cola Company, Clorox Co., and Mars Inc.Target, Walmart, Aldi , Nestlé, Unilever USA, organizzazioni come Consumer Brands Association, Terracycle, Closed Loop Partners, cittadine come Austin e Phoenix e altri soggetti.

I coordinatori dell’iniziativa potranno contare su un comitato composto da dieci membri tra gli aderenti al patto che sarà a disposizione per fornire consulenza e pareri sulle azioni da intraprendere a cominciare dalla predisposizione di una tabella di marcia che stabilirà le fasi per raggiungere gli obiettivi delineati dal patto.
Abbiamo coinvolto i membri dell’intera catena del valore della plastica“, ha affermato Sarah Dearman di TRP durante la conferenza di presentazione. Aggiungendo che il processo è iniziato lo scorso novembre quando i partecipanti hanno convenuto su tempistiche e obiettivi su cui lavorare per eliminare entro il 2025 gli imballaggi “problematici o non necessari“.
Il patto siglato negli UK è stato citato da TRP come un possibile esempio a cui ispirarsi, anche se i punti di partenza sono differenti. Il tasso di riciclo nel Regno Unito è più del doppio di quello USA, ragion per cui l’obiettivo di riciclo è del 50% negli USA contro il 70% degli UK .
Il patto americano riprende l’obiettivo del 30% di contenuto riciclato negli imballaggi del patto inglese, anche se quest’ultimo ha introdotto dei target diversificati a seconda del tipo di imballaggio e considera il 30% come un’obiettivo medio.
Per le bottiglie in PET il patto inglese richiede un 50% di contenuto riciclato, che diventa dal 40% al 50 % per i flaconi in polietilene e del 10% per i film in polietilene e polipropilene .

Allo scopo di aumentare la domanda di plastica riciclata e crearle, man mano che il patto progredisce, un mercato di sbocco, Kersten-Johnston ha annunciato che il patto USA potrebbe qui coinvolgere anche il settore degli imballaggi utilizzati dal settore industria e commercio
Se consideriamo , come riporta Plastic News che i dati governativi riferiti al 2017 dicono che solo il 14,7 degli imballaggi in plastica immessi al consumo è stato riciclato, e che le bottiglie in PET, la tipologia di imballaggi più riciclata, ha un tasso di riciclo intorno al 30%, è evidente che l’obiettivo del 50% al 2025 è piuttosto sfidante.
Per fare un raffronto con il tasso di riciclo degli UK che viene dato al 46% nel 2017 va detto che negli ultimi anni sono stati espressi dubbi da fonti considerate autorevoli sulla veridicità di tale dato. Da un lato perché il tasso di riciclo si calcola sul dato degli imballaggi immessi al consumo, che potrebbe essere in difetto come ha evidenziato uno studio del 2018 di Eunomia , e dall’altro perché si calcolano come riciclati quei due terzi degli imballaggi raccolti in modalità differenziata che sino ad un paio di anni fa venivano esportati. Peraltro anche verso paesi asiatici privi di infrastrutture di riciclo come la Malesia.

Infine c’è un’altra differenza non da poco tra i due patti determinata dal grado di accettazione che godono nei due paesi le politiche basate sulla responsabilità estesa del produttore o EPR (Extended Producer Responsability). Mentre il patto inglese supporta l’applicazione di regimi di ERP in qualche forma, non è ancora chiaro a quali misure e strategie ricorreranno negli USA dove questi regimi non sono stati mai stati istituiti ad oggi per l’opposizione dei produttori dei beni di largo consumo e del mondo della chimica e plastica. Questi ultimi soggetti sono sempre stati più propensi a finanziare le infrastrutture di riciclo se “obbligati” piuttosto che assumersi la responsabilità dei costi di raccolta e riciclo dei propri prodotti a fine vita. Infine, mentre è stato comunicato che il patto inglese copre i due terzi degli imballaggi in plastica immessi nel mercato del Regno Unito, non è ancora noto quale sarà la quota di imballaggi in plastica immessi negli USA di cui sono responsabili gli aderenti al patto.

Così come è avvenuto nei paesi dove questo tipo di accordo è stato lanciato le Ong attive sul fronte dei rifiuti hanno espresso qualche dubbio sull’efficacia e sul potenziale degli accordi volontari in genere.

John Hocevar, direttore della campagna Oceans per Greenpeace USA, pur apprezzando l’approccio multi-stakeholder del patto e il coinvolgimento del mondo della distribuzione organizzata a dei grandi marchi ha espresso alcune preoccupazioni “Non vorrei che questa iniziativa rafforzasse l’idea che la maggior parte degli imballaggi in plastica debba e possa essere riciclata, perché in realtà la maggior parte di questi imballaggi ha poco o nessun valore o un mercato di sbocco“, ha detto Hocevar . “L’obiettivo a cui dovremmo tendere è l’abbandono del monouso e investimenti in sistemi di riutilizzo, di riempimento e dematerializzazione del packaging“.

Anche i commenti raccolti da Plastics News da parte dei referenti di due organizzazioni californiane come As You Sow e CRI Container Recycling Institute hanno espresso un certo scetticismo in particolare riguardo alla natura volontaria dell’iniziativa.

Conrad MacKerron, vicepresidente senior di As You Sow gli impegni sottoscritti con il PP – seppur apprezzabili- rischiano di dipendere esclusivamente dalla volontà degli aderenti : “la nostra attività ventennale di monitoraggio degli impegni presi dalle aziende in tema di RSI (responsabilità sociale di impresa) ci induce a considerare come altamente improbabile che ci si possa avvicinare ad un tasso di riciclaggio del 50% su base volontaria . Abbiamo visto più volte quanto sia facile per le aziende ritirarsi da impegni volontari quando mancano i vincoli legislativi “
Susan Collins, presidente del CRI Container Recycling Institute è altrettanto scettica sul raggiungimento del 50% di riciclo, a meno che non si proceda ad un raddoppio dei sistemi di deposito ( ed oltre) per i contenitori di bevande attualmente operativi negli USA. Questo significa che cento milioni di nuovi americani dovrebbero avere accesso ad un sistema di deposito e che i sistemi già in vigore in 10 stati (che servono ora 90 milioni di cittadini) dovrebbero essere migliorati per aumentarne le prestazioni.
Va detto che il tasso nazionale di riciclo delle bottiglie in PET si raggiunge negli USA solamente grazie al contributo degli stati che hanno adottato questi sistemi con percentuali di riciclo che vanno dal 66% al 96% .
Una svolta per incrementare la percentuale di contenuto riciclato per la California è arrivata dall’ Assembly Bill 793, una legge votata all’unanimità dalle due camere lo scorso 24 settembre che impone un contenuto obbligatorio di plastica riciclata per le bottiglie di plastica coperte dal vigente sistema di deposito. Ovvero almeno il 15% entro il 2022, il 25% entro il 2025 e il 50% entro il 2030. La legislazione prevede anche una penalità di 20 cent di dollaro per ogni libbra ( circa 454 grammi) di plastica vergine utilizzata.

Lezioni da trarre per il nostro paese e oltre

Le iniziative di portata globale come il Global Commitment o i Plastic Pact hanno sicuramente alcuni meriti tra i quali stimolare la collaborazione tra tutti i portatori di interesse, competitors inclusi, che è una condizione imprescindibile quando si tratta di affrontare problematiche ambientali di ordine globale.

Altri meriti sono legati alla modalità di lavoro interdisciplinare che prevede azioni importanti quanto poco praticate dalle aziende come la partecipazione ad un programma condiviso che prevede un certo livello di collaborazione, di rendicontazione e una tabella di marcia da rispettare. Nonché la misurazione del consumo di plastica fatto all’interno delle aziende che si spera possa portare alla misurazione del consumo anche per le altre materie prime impiegate. Tutti aspetti che possono stimolare una maggiore proattività, incidere positivamente sulla capacità di innovazione e problem solving velocizzando al contempo i tempi di perseguimento degli obbiettivi .

Venendo ai punti di debolezza, in parte ripresi nei commenti prima riportati, questi accordi su base volontaria – in mancanza di quadri legislativi coerenti e cogenti – rischiano di disattendere gli obiettivi e di produrre risultati che non sono all’altezza delle emergenze ambientali a cui dovrebbero offrire delle risposte. Inoltre, il fatto che questi accordi siano mirati ad un solo materiale sta aprendo la strada ad alcune “scappatoie” da parte industriale, come la sostituzione dei materiali. E infine non è ancora emersa alcuna evidenza scientifica a provare che il raggiungimento degli obiettivi di iniziative mirate alla sola plastica apportino dei miglioramenti significativi nella riduzione delle emissioni climalteranti e nel tasso di consumo di risorse.

I report di monitoraggio degli impegni intrapresi dagli aderenti del Global Commitment GB usciti ad oggi ha confermano che i progressi sono lenti e prevalentemente orientati alla sostituzione della plastica o al miglioramento della riciclabilità. Nonostante un terzo dei firmatari abbia in corso dei progetti pilota basati sul riuso dei contenitori, meno del 3% in peso degli imballaggi che immettono al commercio è riutilizzabile. Sono 43 le aziende che stanno testando modelli di riuso in più mercati e per diversi prodotti tra aziende produttrici di imballaggi, di prodotti confezionati o del settore della distribuzione, ma poche impegnate su larga scala. Infatti solamente il 13% tra le grandi aziende firmatarie sta sperimentando modelli di riuso per una parte significativa del loro portfolio di prodotti. Per capire quale è il peso del GC in termini di plastica immessa sul mercato come imballaggi va detto che non è stato firmato da tutte le grandi multinazionali dei prodotti di largo consumo, come nel caso di P&G, e che copre quindi appena il 20% delle quantità di packaging utilizzate a livello globale.

Una valutazione piuttosto critica sugli accordi volontari è contenuta nel corposo rapporto uscito lo scorso settembre a cura della fondazione Changing Markets dal titolo Talking Trash: The Corporate Playbook of False Solutions,” . Dal rapporto e dai casi studio analizzati emergono le tre tattiche utilizzate dalla maggiori multinazionali e Big Plastic che si traducono in : ritardare (misure che potrebbero minare il consumo e fatturato) , distrarre (l’attenzione dai responsabili ) e fare deragliare (le legislazioni). Il rapporto frutto del lavoro congiunto di giornalisti investigativi, ricercatori ed esperti del settore da tutto il mondo, copre 15 paesi e regioni a cavallo di cinque continenti.

TALKING TRASH “Until companies up their game, call for mandatory collection and producer responsibility, and stop delaying and derailing legislation and distracting from their true accountability for the plastics crisis, they are doing no more than talking trash“.

Secondo il rapporto gli accordi volontari ricadono nella tattica del distrarre l’attenzione da possibili misure legislative attraverso l’adesione ad accordi volontari molto ben pubblicizzati. Altre tattiche che hanno lo stesso obiettivo sono le iniziative ex post che “funzionano come cerotti” e non intervengono sulle cause dei problemi. Tra gli esempi riportati nel rapporto abbiamo: le campagne di pulizia ambientale, la realizzazione di prodotti a partire dalla plastica dei rifiuti marini, le iniziative di promozione del riciclo che non prevedono obblighi stringenti di raccolta, la promozione di altre opzioni alternative sempre monouso come le bioplastiche biodegradabili o compostabili, la promozione di soluzioni tecnologiche “magiche” come il riciclaggio chimico. E infine il finanziamento di studi progettati per supportare il loro punto di vista e un’ampia e diffusa pubblicizzazione delle proprie credenziali ecologiche presso i consumatori attraverso media ben finanziati e campagne pubblicitarie. (1)

Alle iniziative volontarie della EMAF legate al progetto The New Plastics Economy prima citate il rapporto ha dedicato una sezione (1) che, oltre agli aspetti positivi prima ripresi, individua anche alcune limiti che riassumiamo di seguito :

  • nonostante l’iniziativa abbia portato oltre 35 brand a rivelare la loro impronta plastica in termini di tonnellate di polimeri impiegati ogni anno, non c’è l’obbligo di pubblicare i dati condivisi con la fondazione e di farli certificare da un’ente indipendente;
  • come altre iniziative su base volontaria che non prevedono conseguenze per chi non raggiunge gli obiettivi prefissati, può offrire agli aderenti l’occasione per defilarsi dalle proprie responsabilità ;
  • manca un’azione di pressione sugli aderenti per spingerli ad adottare strategie per ridurre il consumo di plastica monouso ( a favore anche dei sistemi di riuso, ad esempio ). inoltre la EMAF sembra non avere una strategia per agire sui singoli membri che mancano di ambizione o di trasparenza che si discosti in sostanza dal “tutta carota e niente bastone”. I partecipanti non vengono spinti a competere tra loro, ad esempio attraverso la pubblicazione di classifiche e posizionamenti delle performance individuali dai cui si evincano “i migliori della classe”. (Nel frattempo però i firmatari utilizzano ampiamente la loro partecipazione al programma per migliorare la oro reputazione e anche fare greenwashing);
  • la fondazione non sembra preoccuparsi delle modalità attraverso cui i grandi marchi riducono la dipendenza dalla plastica vergine e raggiungono i loro obiettivi. Ad esempio “non ci sono state domande” sul fatto che la strategia di Mars si basi pesantemente sul riciclo chimico ( invece che meccanico) e sembra che la EMAF consideri il riciclo chimico come una componente dell’economia circolare. (2)
  • nonostante il fatto che la mancanza di plastica post consumo di alta qualità rappresenti una grande sfida al raggiungimento dei target di contenuto riciclato negli imballaggi la fondazione non promuove i sistemi di deposito obbligatori per legge. Grande parte degli aderenti alle iniziative della EMAF concentrano di fatto i loro sforzi in partnership con compagnie che stanno sviluppando progetti di riciclo chimico e investendo in altre tecnologie problematiche ancora immature.

Quello che invece lo studio Evaluating Scenarios Toward Zero Plastic Pollution ha argomentato è che perseguire il Business as usual comporterà un aumento i rifiuti di plastica negli oceani pari a 450 milioni di tonnellate nei prossimi 20 anni.

Non per nulla anche il rapporto Breaking the Plastic Wave che accompagna lo studio conviene che l’approccio più efficace per affrontare questo fenomeno preoccupante è quello definito come lo scenario “System Change” in cui si interviene sull’attuale modello economico con varie misure che spaziano da interventi sul piano normativo, sui modelli di business e sui meccanismi di finanziamento che attualmente incentivano prevalentemente l’industria fossile e l’utilizzo di plastica vergine.

Note bibliografiche

(1) Talking Trash Full report: section 2.3. Alliances and group initiatives (2.3.3. e 2.3.4. ) pag. 30. Segnaliamo a pag.33 il box 2.2. che elenca le caratteristiche che un’iniziativa a livello volontario dovrebbe invece avere per essere efficace. Box 2.2: What does a good voluntary initiative look like?

(2) A) The New Plastics Economy global commitment: 2019 progress report
B) Enabling a CE for chemicals with The Mass Balance approach. A White Paper

C) Chemical recycling ‘promising’ for circular economy, EU official says

Fonte: Comuni Virtuosi

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